Ramallah, tra speculazione edilizia e donne resistenti [2]

gennaio 9, 2014 in Palestina da Sonia Trovato

Bandierina-IngleseDisponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi

Per scorgere il “monte di Dio” che Ramallah conserva etimologicamente bisogna fare un’immane opera di fantasia e provare a immaginare distese di erba laddove ora vedi solo immondizia e case accatastate. La città, venutasi impropriamente a sostituire alla capitale effettiva della Palestina – Gerusalemme, sotto occupazione israeliana dal 1967 – , si è infatti espansa senza un piano regolatore che potesse impedire la totale deturpazione del paesaggio. Ramallah si trova in quella che gli accordi di Oslo definiscono zona A, e che dunque sarebbe sotto il pieno controllo dell’Autorità palestinese. Capisci immediatamente che queste suddivisioni sono fumose e inconsistenti e che da uno Stato come Israele, che non ha mai dichiarato formalmente i propri confini, non si può certo sperare il riconoscimento e il rispetto di quelli altrui. Inizi a comprendere quanto sia complicato distinguere ciò che è israeliano da ciò che non lo è più.

Un check point e il muro ti avvisano che siete in territorio palestinese, ma formalmente anche Gerusalemme lo è, visto che l’ONU ha sempre dichiarato illegittimo il documento con il quale lo Stato ebraico proclama la città dei tre monoteismi come propria capitale. In questa cittadina, che la tua guida definisce “la Parigi della Cisgiordania”, sorgono in effetti il Parlamento e la Muqata’a, il complesso residenziale che diventò la roccaforte di Arafat durante l’assedio israeliano del 2002 e che ora ospita l’Autorità nazionale palestinese. Ma è un Parlamento completamente esautorato, perché da quando Hamas ha vinto nel 2006, vi spiega il primo cittadino, non ci sono elezioni e riunirsi in assemblea è diventata un’impresa epica, dato che la maggior parte dei parlamentari, quelli non detenuti a Tel Aviv, vive a Gaza. Ergo, non sono in carcere ma è come se lo fossero. Qui, in questa piccola e fatiscente sala comunale, avete un primo assaggio dell’accoglienza e della festosità che vi saranno riservate in tutti i posti in cui andrete. Voi dovete farvi ambasciatori, dovete raccontare la sofferenza del popolo palestinese, cosa significhi vivere sotto occupazione vi dice il sindaco. Noti immediatamente che parlare di “occupazione” bandisce ogni possibilità di guardare alla tragedia che da sessant’anni infiamma la Terra santa come a una contesa bellica per ottenere la supremazia territoriale, sulla base di rigurgiti di sciovinismo e di integralismo religioso, come invece lasciano intendere i maggiori quotidiani occidentali. Di fatto, “occupazione” è l’unico termine che sentirai utilizzare anche negli incontri successivi.

ramallah

A Ramallah ha sede anche l’ufficio di Marwan Barghouti, il parlamentare che ha fatto da sfortunato apripista agli arresti da parte israeliana dei protagonisti della lotta per l’autodeterminazione palestinese. In assenza del leader, l’edificio è diventato il luogo di ritrovo del comitato che lavora alla sua liberazione, presieduto dall’avvocato e moglie Fadwa. Ti basta uno sguardo verso quell’imponente e granitica donna, dagli occhi malinconici e, al contempo, combattivi, per provare un istantaneo affetto empatico e un’ammirazione incondizionata. La signora Barghouti racconta che quando, ventinove anni fa, conobbe il suo futuro sposo, lui la mise in guardia sull’impossibilità di vivere un rapporto normale, di portare i figli al parco, viaggiare e godere delle tenerezze che accomunano tutte le coppie del pianeta. Veramente mi offendi – rispose Fadwa – perché la Palestina è anche mia e anche io voglio che la mia terra sia liberata. Questa frase ti stordisce e ti emoziona. Un amore così puro, intenso, così inestricabilmente legato alla militanza politica l’hai conosciuto solo attraverso qualche romanzo sulla vostra Resistenza, nella caparbia Agnese va a morire di Renata Viganò, ad esempio, o nella Mara Castelucci che fa da protagonista alla Ragazza di Bube di Cassola.

Ai figli, che vivono da dodici anni senza il padre e che, nel giorno del diploma, hanno provato a colmarne l’assenza ricorrendo a Photoshop, la donna spiega sempre che la detenzione di Marwan non è motivo di vergogna ma, semmai, di orgoglio. Ti viene in mente il passo di una struggente lettera di Gramsci alla madre: Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. È il fondo universale che c’è in tutte le resistenze del mondo a legare la piccola cella di Turi, dove la dittatura fascista rinchiuse una delle menti più illuminate del secolo scorso, a questo stanzone pieno di luce, risate e tenacia.

La battaglia di Fadwa non è una battaglia per un affetto privato, per il coronamento di un sogno amoroso dove non ci siano più sbarre, incontri sorvegliati e azioni legali. Lei è la moglie di tutti i prigionieri politici palestinesi, come si è lasciata scherzosamente scappare in occasione del lancio della campagna in Sudafrica ad opera di Nelson Mandela, e non cederà alla rassegnazione e alla stanchezza finché non verrà riconosciuto lo status di prigionieri politici a tutti i detenuti cisgiordani e finché Marwan e tutti gli altri resistenti non verranno rilasciati. Dovevi arrivare fino a Ramallah, in una terra che le femministe nostrane descrivono come il parossismo della relegazione e sottomissione della donna, per assistere a questa grande lezione di femminismo e civiltà.

Dal pullman, dove cerchi di metabolizzare la commozione per questo incontro magico (ancora non sai che è il pathos che ti porterai dietro per l’intera settimana), scorgi un murales dedicato a Vittorio Arrigoni. Vorresti fotografarlo, ma state già sfrecciando verso una nuova storia di coraggio e resistenza. Destinazione: il piccolo villaggio di Bili’n.

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