Solgenitsin anticapitalista e antiamericano

gennaio 23, 2020 in Approfondimenti da Mario Baldoli

Solgenitsin nel1994

Solgenitsin nel1994

Dopo vent’anni di esilio Solgenitsin torna in Russia, è l’estate del 1994.

Dall’Alaska sbarca nel selvaggio est della Russia. Da lì, con la transiberiana, fermandosi a volte per giorni in paesi che vuole rivedere, raggiunge lentamente Mosca.

Da giovane aveva amato i bolscevichi, aveva partecipato alla II guerra mondiale, promosso capitano d’artiglieria ed era stato decorato due volte.

Fu arrestato per una lettera privata in cui criticava Stalin e condannato a otto anni di campo di lavoro (gulag), poi cacciato in esilio. Dalla metà degli anni Cinquanta aveva abbandonato il marxismo ed era diventato profondamente religioso. Dall’esperienza del gulag nacquero i suoi due più famosi romanzi Una giornata di Ivan Denisovic e Arcipelago Gulag, oltre a racconti e poesie per cui vinse il Premio Nobel nel 1974. Non andò a Stoccolma a ritirarlo, temendo di non poter più tornare in Urss, né la Svezia ebbe il coraggio di andarglielo a consegnare come era previsto.

Solgenitsin nel gulag

Solgenitsin nel gulag

Solgenitsin continuò a lavorare in autonomia, riuscendo a pubblicare molti scritti in Urss, tra cui l’Ivan Denisovic sulla rivista “Novi Mir”, la voce più libera. Ma verso il ’68 la censura diventò rigida. In piena guerra fredda la sua denuncia della mancanza di libertà in Urss fu un cuneo nel conformismo intellettuale europeo filo-sovietico, creò imbarazzo nei partiti comunisti occidentali che non vollero difenderlo, a cominciare dal genio incompreso di Napolitano.

Ora il figlio Ermolaj ha raccolto 17 interventi pubblici del padre, interviste e discorsi dal 1994 (suo ritorno in Russia) al 2008 (data della sua morte). Quelle testimonianze del suo pensiero e della sua sofferenza sono raccolte in un libro che è necessario conoscere Ritorno in Russia, discorsi e conversazioni (1994-2008), ed. Marsilio, introduzione del figlio, traduzione. note, postfazione e bibliografia di Sergio Rapetti, che getta uno sguardo esteso e indispensabile sull’intelligentsia russa e sui rapporti tra intellettuali e politica che la caratterizzavano.

I manoscritti non bruciano si diceva: infatti, ricopiati coraggiosamente dagli stessi autori e dagli amici, battuti a macchina di notte, diffusi in segreto, erano un legame esile ma forte. Tra loro va ricordata la poeta Anna Achmatova col suo Requiem, ricopiato per la prima volta proprio da Solgenitsin.

Prima di tutto l’introduzione del figlio ci svela l’uomo Solgenitsin all’incontro con la Russia. Attraverso la Transiberiana: si ferma in un paese, visita musei e luoghi storici, spesso legati alle migrazioni forzate di Stalin e a milioni di morti, parla con chi incontra casualmente per strada, si informa, prende molti appunti, gira per i dintorni: boschi, fiori, profumi gli fanno riscoprire lo splendore selvaggio della natura siberiana. Poi visita, com’è obbligo, le autorità locali, e riprende senza fretta il viaggio verso Mosca. E’ bello leggere di quest’uomo, staccato dal potere, tornare con un percorso, a volte tortuoso, per entrare in diretto contatto col popolo prima che con il potere. Doloroso è l’impatto con la nuova società: povertà, corruzione, delinquenza sembrano connotarla ovunque.

Altrettanto importante conoscere la sua reazione. Nelle città più popolose, in sale stracolme di persone, Solgenitsin parla per 15-20 minuti, poi ascolta: le domande che tendono ovunque a ripetersi: caos, violenza, miseria, demoralizzazione, un’inflazione inarrestabile, “era meglio prima”, l’incertezza di come sarà il giorno seguente, un’umanità sbigottita, sconcertata che ha libertà di parola e di stampa (ma i giornalisti non sanno se il giorno dopo saranno pagati), ha perso le certezze del passato, a cominciare dalle garanzie sociali, un mondo dove “tutto sprofonda chissà dove”.

A cosa serve la libertà di stampa, di riunione, dei partiti?

Il ritorno, dopo vent’anni dev’essere stato terribile per lui. Quattro anni dopo Solgenitsin scrive amaramente La Russia in rovina una testimonianza sconvolgente: Non c’è democrazia perché essa esige, prima ancora della libertà, l’indipendenza economica. E’ la realtà del capitalismo

Da buon intellettuale la sua critica si fa storica, cerca le cause e le individua nei governi sovietici: Kruscev era riuscito a mantenere forte l’Urss, aveva mandato Gagarin nello spazio, ma la situazione economica già peggiorava, Bresnev non cambiò la situazione malgrado una politica aggressiva; il disastro avvenne con Eltsin, l’irresponsabile “che instaurò in fretta e furia la proprietà privata permettendo il saccheggio di miliardi di miliardi delle ricchezze nazionali”, incoraggiò il separatismo, il disfacimento – anche culturale – dello Stato.

Seguì Gorbaciov, ingenuo oltre che irresponsabile, tanto simpatico agli occidentali quando propiziò la capitolazione e dissoluzione del Paese.

Solgenitsin e Putin

Solgenitsin e Putin

Almeno – dice Solgenitsin – doveva tenere insieme Russia, Ucraina, Bielorussia, possibilmente il Kazakistan, aree dove ormai molti erano i matrimoni misti e si parlava russo. Di conseguenza lo angustia quel problema: venticinque milioni di russi si trovano, soprattutto in questi Paesi, sorpresi dalla divisione dell’Urss, senza un passaporto valido. Perchè lo Stato non fa nulla per loro, per farli rientrare e trovar loro una collocazione dignitosa?

Quali sono ora i compiti più urgenti? La sua risposta è: proteggere il popolo più povero, (due terzi della popolazione), convincerlo che l’economia e la politica riguardano tutti i cittadini, ottenere che esse nascano dal basso, da gruppi di villaggi che discutono i loro problemi, li collegano, prendono a governare il proprio futuro.

Gli Stati Uniti? Il luogo dove ha passato tanti dei suoi anni è il Paese che ha commercializzato tutta la vita sociale, ha finanziato le rivoluzioni arancione in Ucraina e Georgia con l’obiettivo che la Nato circondasse la Russia. Altro orrore, quello che vediamo oggi: negli ultimi anni gli Usa hanno deciso di impiantare la democrazia in tutto il pianeta. Impiantarla! Scrive sdegnato. Naturalmente con la guerra.

Solgenitsin riepiloga la strategia americana: il bombardamento della Jugoslavia e la sua sanguinosa divisione, l’Afganistan, l’Iraq. Quale sarà la prossima vittima? Si chiede: forse l’Iran?

I fatti gli danno ragione. Non è un trionfo l’impianto della democrazia! E’ un orrore.

Solgenitsin non considera gli orrori perpetrati nel Sud America, la spinta americana a fomentare guerre civili, ma constata l’imperialismo della loro politica.

Ovviamente lui guarda alla Russia di oggi, cerca una luce disperanza: è Putin che “ha ricevuto in eredità una nazione depredata, un popolo impaurito e demoralizzato, ma sta lentamente risanando la situazione, sta ripristinando l’autorità statale, ha avviato una politica estera lungimirante”.

Il potere di Putin scende verticalmente da lui alla Duma ai potenti, mentre Solgenitsin vorrebbe una società più “orizzontale”, ma Putin, con i suoi successi in politica estera, è il primo passo.

Nessuno può sapere cosa penserebbe oggi della dittatura di Putin e dei boiardi (non più di Stato) che continuano ad arricchire, forse gli è evitata un’altra delusione.

I suoi ultimi anni lo vedono impegnato a terminare un grande studio storico avviato da tempo, La ruota rossa, una storia della rivoluzione sovietica in 4 volumi, una lunga indagine attraverso archivi, svolta a smascherare le menzogne che gli storici hanno accumulato. Il suo grande lavoro non è stato tradotto in italiano, probabilmente per i costi editoriali.

Possiamo concludere davvero con le sue parole: Non ho mai agito contro la mia coscienza.

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