Sono stata in Palestina [13]

dicembre 11, 2014 in Palestina da Sonia Trovato

 Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi Bandierina-Inglese

Ho scritto venti righe sull’amore
e mi è sembrato
che questo assedio
si sia arretrato di venti metri!
(Mahmud Darwish)

gruppo di bil'in

 Sono le tre di notte. Le pupille, affaticate dall’interminabile giornata nella Valle del Giordano, resistono a fatica alle luci dell’aeroporto Ben Gurion, tanto da farti maledire il momento in cui hai deciso, insieme ad altri temerari del gruppo, di non andare a letto perché “è meglio non dormire affatto piuttosto che dormire due ore”. Mentre ve ne state in coda ad attendere che l’occhio sospettoso di un funzionario israeliano si posi sulle vostre facce stravolte, rimpiangi quelle due ore di sonno che ti avrebbero consentito di recuperare un po’ di lucidità e le tue misere conoscenze inglesi. Ti sforzi di tenere la testa dritta sul collo e di evitare che cada a ciondoloni, quando un energumeno e due sosia di Sonya Blade di Mortal Kombat accerchiano te e gli altri giovani del gruppo. 

Le domande che vi vengono poste rasentano l’idiozia: “Vi conoscete?” Vi conoscevate prima di trovarvi qui? Perché viaggiate senza genitori?” (Perché viaggiate senza genitori?! È una rievocazione dell’Epoca vittoriana?). In un primo tempo queste e altre domande vengono rivolte a tutti, poi iniziano gli interrogatori incrociati, per verificare che le risposte siano uguali. Ma è solo l’antipasto, dato che ufficialmente i controlli non sono ancora iniziati.

A sancirne l’avvio, una sorta di test per decerebrati, in un italiano da Io speriamo che me la cavo, nel quale bisogna indicare l’opzione corretta, l’opzione, cioè, che i burocrati ritengono soddisfacente per non considerarvi dei potenziali terroristi. Di seguito un campionario di quesiti: Chi ti ha fatto la valigia? (ed esiste anche la risposta “non so”). La vostra valigia è sempre rimasta con voi? (Tranne nel baule del pullman, dove evidentemente il personale del Ben Gurion pretendeva che vi infilaste, sì). Avete coltelli con voi? (Oh sì ovvio, un intero set di Miracol Blade). Qualcuno vi ha fatto un regalo o vi ha affidato un oggetto da consegnare in Italia? (Un ragazzo palestinese ti ha regalato un portachiavi a Hebron, per ringraziarti delle lacrime versate dopo la visita al centro storico trasformato in un terrificante ghetto. A ripensarci, gli occhi ti si velano di nuovo. È in questo tentennamento che è dipeso, forse, il protocollo rigidissimo cui verrai sottoposta tra non molto. O forse no, forse è tutto random e umorale).

Terminato il questionario, l’ennesima epigona di Sonya Blade appiccica un adesivo giallo, pieno di numeri, sul tuo passaporto e su entrambi i bagagli, a mano e a stiva. Al rientro, indagando sul colore e sui numeri, scopri che quella è la serie riservata ai militanti. Cosa vi distinguesse da normali turisti resta tuttora un mistero. La serie numerica comporterà una divisione del gruppo, dato che alcuni, più fortunati o più rassicuranti, avanzano senza doversi sottoporre alla perquisizione di tutti i bagagli. Mentre attendi il tuo turno, osservi, con un certo timore, quello che sta accadendo ad alcuni compagni di viaggio: nel trolley di Katia, ad esempio, viene trovato un volantino dell’ONU. È l’ONU, non Hamas o Al Qaeda, ma è sufficiente per scatenare chissà quali congetture. Non hai il tempo di ripercorrere gli oggetti che gli agenti potrebbero non gradire – dalle kefiah acquistate a Hebron, alla sciarpa palestinese che vi ha regalato la sindaca di Betlemme Vera Baboun, fino al dvd del documentario Five broken cameras, coperto da carta regalo nella speranza che non si azzardino a strapparla. Tocca a te: un belloccio con capelli ingellati ha già iniziato lo svuotamento del bagaglio a stiva. Sospiro di sollievo, dato che tutte le cose elencate si trovano nel bagaglio a mano. “È la prima volta che vieni in Israele?” – “Sì, è la prima volta” – “Speriamo non sia l’ultima allora” ti dice il Belloccio, schiacciandoti l’occhio – “Già, speriamo” chiosi tu, abbassando la testa e vergognandoti a morte per questa compiacenza. Quando la rialzi, l’umiliazione: il Belloccio sta frugando nella tua biancheria sporca e inizia a palpare i reggiseni, sforzandosi di nascondere un sorrisetto allusivo, che invece il suo vicino mostra platealmente. “Tira fuori tutte le cose elettriche”, ti intima, abbandonando il tono cinguettante di prima e sbattendoti addosso questa frase secca e autoritaria. Cose elettriche, oddio, cose elettriche: cellulare, caricabatterie, macchina fotografica con relativo caricabatterie, ipod… Ma no, non è sufficiente, l’aggeggio che rileva l’elettricità continua a suonare all’impazzata. “Non ho altro, giuro. Non capisco più niente”. Ma ecco che l’elettricità viene trovata: era il caricatore dell’ipod. Scortata da due poliziotti, puoi imbarcare il bagaglio a stiva. Pensi che il peggio sia passato e invece il controllo del bagaglio a mano si rivelerà assai più ostico.

IMG_0147

Murales, sul muro, a Bil’in

In questa nuova zona arrivate in pochi, perché chi ha mostrato più sangue freddo nel precedente controllo viene condotto direttamente all’imbarco. Sembra una rievocazione dantesca, dove i giri di coda dei funzionari decidono a quale girone siete destinati. Il Minosse di questo settore è però molto meno sornione dei precedenti e ti fissa addosso due occhi piccoli e  gelidi. “Viaggi in gruppo? Quale? Come si chiama il capogruppo? Dove siete stati?”. Non fai in tempo a rispondere a queste domande, sfoggiando un inglese che non pensavi nemmeno di avere, che senti un “Oh God, God, God” che non fa presupporre nulla di buono. La coda di Minosse si è infatti imbattuta nelle tre kefiah imbustate, che vengono sventolate, con disappunto, sotto il tuo naso. Per questa fase Sguardo Gelido non basta e viene chiamato l’Uomo Smilzo. “Sai cosa sono quelle sciarpe? Sai cosa rappresentano? Fai politica?”. Cerchi di dirgli che le kefiah sono ormai super turistiche, che le vendono in qualsiasi mercato di Gerusalemme (tu non le hai acquistate lì, ma comunque…). Quanto alla politica, non sai cosa rispondere: leggere, informarsi, informare, non accontentarsi delle narrazioni ufficiali, non lasciarsi vincere dall’inerzia vuol dire fare politica? Ma ecco che una nuova serie di domande, di tutt’altro tenore, ti lascia interdetta: “Come si chiamano i tuoi genitori? E i tuoi nonni? E i tuoi bisnonni?”. I miei bisnonni?! E chi lo sa! È dai tempi delle elementari, quando la maestra vi faceva disegnare il vostro albero genealogico, che qualcuno non ti costringe a riportare alla memoria il nome dei tuoi avi. Decidi di deporre le armi, basta. “Non lo so come si chiamano, mi dispiace”. “Sono italiani?” ribatte l’Uomo Smilzo. Ah ecco, dunque è questo che gli importa: verificare che nella tua famiglia non ci siano arabi. “Sì, sono italiani, sono tutti italiani” rispondi, con il cuore che scoppia di sdegno. “Sei religiosa”? – “Sono cristiana per cultura, ma non sono credente, nessuno nella mia famiglia è particolarmente credente o praticante”. Non riesci a capire se questa risposta lo soddisfi, sei troppo impegnata a pensare che se una qualunque nazione araba si permettesse di sottoporre i propri turisti a richieste così palesemente razziste, la notizia rimbalzerebbe su tutti i tg e i capi di Stato occidentali parlerebbero di oltraggio alla libertà e alla democrazia. Lo fa Israele, Paese che gode della protezione incondizionata degli Stati Uniti e dei gregari degli Stati Uniti, e nessuno osa fiatare.

foto di gruppo in palestina

Foto di gruppo a Hebron con gli attivisti di YAS

L’ultimo atto di questa farsa intimidatoria prende di mira i libri. Hai deciso di portare con te Addio alle armi di Hemingway e Se questo è un uomo di Primo Levi. Addio alle armi, addio a quelle armi che le valli vicine alla tua città fabbricano e poi vendono a Israele, rendendosi complici della Pulizia etnica della Palestina, come l’ha chiamata lo storico israeliano Ilan Pappè. E ti sei chiesta ripetutamente, guardando i volti smagriti dei bambini o la rassegnazione di chi attende il proprio turno ai checkpoint o la rabbia negli occhi dei ragazzini che lanciano pietre o il terrore per le violenze quotidiane perpetrate dai coloni, se quello che viene trattato come una bestia da settant’anni possa ancora sentirsi un uomo. L’Uomo smilzo ti chiede di tradurre il titolo dei libri. L’angoscia e la stanchezza ti fanno coniare una storpiatura di cui ancora ridi: Goodbye arms – Arrivederci, braccia. Quanto a Primo Levi, spieghi che si tratta di un reduce di Auschwitz, ma dalla sua espressione è evidente che il nome gli risulti del tutto sconosciuto. L’opinione pubblica israeliana accusa di antisemitismo chiunque osi criticare le politiche del governo e questo tizio non conosce nemmeno Primo Levi, che di antisemitismo, quello vero, ha rischiato di morire. Alla faccia del popolo del Libro, titolo del quale tanto si fregiano…

L’estenuante interrogatorio è terminato, non prima di una perquisizione delle tasche con il metal detector. Corri rapidissima verso l’imbarco, che sta per chiudere. Le ore di volo e la pausa a Istanbul passano in un baleno, presa come sei dai pensieri che questo viaggio in quella terra bellissima e disgraziata ti ha irriducibilmente inciso nella carne. Quando atterrate in Italia, ormai abituata alle trafile israeliane, ti viene voglia di abbracciare la paffuta poliziotta che ti controlla a malapena i documenti. “È stata in Israele?”.

La mente ripercorre in un lampo l’indimenticabile esperienza e chi ha contribuito a renderla tale: Luisa Morgantini, la donna che vi ha portato in Palestina; i 52 viaggiatori che, come te, hanno pensato che otto giorni trascorsi a capire e a conoscere valessero più di qualsiasi Capodanno in discoteca; Fadwa Barghouti, un esempio di amore e di femminismo; i resistenti di Bil’in; i coraggiosi volontari di Zochrot; Samer Issawi, il bellissimo Samer Issawi, con il suo sguardo ferito ma fiero; Huda, la cui ostinazione è stata immortalata nell’ultima fatica letteraria di Suad Amiry; i ragazzi di Operazione Colomba; Sami Huraini, che a sedici anni ha già il guizzo del partigiano; le donne della Handicraft Cooperative, impegnate in una doppia resistenza, quella contro l’occupazione israeliana e quella contro la cultura patriarcale dei loro mariti; il tristissimo bambino di At-Tuwani, con la faccia escoriata, il quale voleva che lo portaste lontano dalla violenza e dalla morte che rovinano la sua infanzia; Issa, Izzat, Jawad e gli altri di YAS, che difendono la loro Al-Khalil; Mike, con le sue calde mani di pane e il suo sorriso buono; Miguel, che da vicino occasionale di pullman diventerà un amico di penna; i bambini ridenti della Valle del Giordano; e poi Yehuda Shaul, Nurit Peled-Elhanan, Michele Giorgio, Chiara Cruciati, Luca Ricciardi che vi hanno informato.

No, non sono stata in Israele. Sono stata in Palestina.   

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