Coscienza e coraggio di Edith Wharton

luglio 16, 2023 in Recensioni da Gaetano Barbarisi

febbre romana copertinaLa raccolta di Edith Warthon, Febbre Romana. Cinque racconti, a cura di Paola Splendore, 2021, propone una selezione agile, ma gustosa, di racconti brevi che l’autrice pubblicò tra il 1899 e il 1934 – dunque in fasi diverse della sua carriera letteraria. Ognuno di essi contiene i caratteri distintivi della scrittura e del gusto narrativo presenti nell’estesa produzione della scrittrice americana, che va dal nutrito corpus delle short stories, più di ottantacinque, ai grandi romanzi, alle poesie, agli scritti sull’arte, l’architettura e il design. Il volume è edito dalle Edizioni dell’Asino, una piccola realtà editoriale romana che mi piace segnalare per le scelte operate sin dalla sua nascita. Diretta da Goffredo Fofi, pubblica la rivista Gli asini e dà voce a temi, analisi, saggi che affrontano i mutamenti della società italiana nel quadro del mondo attuale e della sua crisi, fornendo un utile strumento di analisi e approfondimento per le minoranze attive.

In ambito letterario presenta volumi dotati di fascino, con il gusto dell’oggetto ritrovato o degno di una riscoperta nel vasto panorama editoriale italiano. È il caso di questa deliziosa edizione con la nuova traduzione in italiano di Alessandra Contenti, docente di Letteratura Americana nelle Università di Napoli e di Roma, che ha il pregio di restituire in modo straordinario il gusto e la vivacità della cifra di Wharton. Introduce il volume Paola Splendore, che ricordo con affettuosa riconoscenza per essere stata un’attenta e rigorosa relatrice della mia tesi di laurea all’Istituto Universitario Orientale. Nota e apprezzata anglista, docente di Letteratura Inglese in diversi atenei, si occupa in prevalenza di letterature post-coloniali e di letteratura migrante. Ha pubblicato numerosi saggi di storia e critica letteraria, ha scritto sull’opera di scrittori indiani, sudafricani e caraibici, oltre ad aver curato le edizioni italiane di opere di Virginia Woolf, del filosofo Raymond Williams e del premio Nobel J.M. Coetzee.

Edith Wharton

Edith Wharton

Nota al grande pubblico per L’Età dell’Innocenza, primo Premio Pulitzer attribuito a una donna, nel 1921, e dal quale Martin Scorsese trasse il film omonimo nel 1993, Edith Wharton è certamente una delle figure centrali nel panorama della letteratura in lingua inglese tra ‘800 e ‘900.

Nasce nel 1862 da una famiglia benestante e molto nota dell’alta borghesia newyorkese, i Newbold Jones, che dal 1866 danno inizio a un prolungato ciclo di viaggi in Europa, in particolare in Italia e in Francia. Edith, che non frequenta scuole pubbliche, nel corso di questi viaggi riceve la sua prima formazione da istitutrici domestiche, studia le lingue e, vincendo le resistenze familiari, forma il suo interesse per la letteratura e per l’arte già in giovanissima età grazie alla vasta biblioteca paterna: a quindici anni scrive numerosi racconti e poesie, inizia il suo primo romanzo e pubblica, con uno pseudonimo maschile, alcune traduzioni dal tedesco. All’età di ventitré anni sposa il banchiere Edward Wharton di Boston, anch’egli rampollo di una famiglia facoltosa, con il quale continua a viaggiare in Europa, alternando lunghi periodi in Italia alla propria residenza The Mount nel Massachusetts, che ancora oggi è visibile nell’assetto che lei stessa aveva conferito alla casa e alla tenuta. Divorzia nel 1913, dopo una lunga malattia mentale del marito, legandosi in seguito a Morton Fullerton, autore e corrispondente per The Times di Londra, e con il quale stabilisce una profonda intesa intellettuale. Nel 1989 matura la scelta di dedicarsi completamente alla scrittura, pubblicando i primi racconti e poesie sulla rivista Scribner’s Magazine; più tardi, a sostenerla e incoraggiarla è Henry James, conosciuto in Inghilterra nel 1903.

Del 1902 è il suo primo romanzo, The Valley of Decision (La Valle della Decisione), ambientato nell’Italia settentrionale del XVIII secolo. Segue una serie di pubblicazioni, tra racconti e articoli, apparsi nelle pagine delle migliori riviste europee e americane. Nel 1905 pubblica il romanzo The House of Mirth, una critica dura della classe dominante americana, anch’esso alla base di un film del 2000, La Casa della Gioia del regista Terence Davies. Nel 1911 esce Ethan Frome (L’Incidente), che parte della critica ritiene la più riuscita delle sue opere. Nei romanzi l’autrice denuncia la falsità e gli stereotipi della borghesia nordamericana, gli stili di vita frivoli, l’ipocrisia delle convenzioni sociali che impediscono all’individuo, in modo particolare alle donne, scelte autonome e una reale libertà dagli schemi sociali.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Wharton si trova a Parigi, dove si era stabilita nel 1907. Qui, diversamente da altri americani che subito lasciano la Francia, si dedica con tutte le sue forze e con ingenti aiuti economici al sostegno della popolazione più colpita e dei più deboli, delle donne disoccupate, dei bambini e dei rifugiati belgi e fiamminghi colpiti dai bombardamenti tedeschi. Si reca costantemente in trincea e sui campi di battaglia, dai quali invia articoli e reportage di guerra ai giornali americani, auspicando l’intervento statunitense nel conflitto. Nel 1916 è insignita dal governo francese della Legion d’Onore.

In quegli anni continua a scrivere: nel 1917 pubblica Summer (Estate), l’anno successivo il romanzo The Marne e, nel 1923, A Son at the Front (Un figlio al Fronte), sulle devastanti conseguenze della guerra. Nel corso degli anni successivi, oltre a The Age of Innocence del 1920, pubblica altri romanzi e racconti, tra cui la Tetralogia di New York nel 1924 e, nel 1937 Ghosts, una celebre raccolta di racconti ispirata alla narrativa fantastica dell’amico e maestro Henry James. Edith Wharton fu amica e confidente di altri intellettuali del suo tempo: fu vicina, tra i tanti, a Sinclair Lewis, Jean Cocteau, André Gide, Ernest Hemingway, Theodore Roosevelt, Bernard Berenson, Francis Scott Fitzgerald. Muore nel 1937, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro, The Buccaneers (I Bucanieri) di cui riesce a scrivere ventinove capitoli dei trentacinque concepiti e che secondo la rivista Time, se concluso, sarebbe diventato il suo capolavoro; nella storia i bucanieri sono gli americani che con le loro ricchezze vanno all’assalto dei tesori d’arte e cultura del vecchio mondo.

Wharton è profondamente affascinata dall’Italia, dalla sua arte e dalla sua storia. Oltre alle ambientazioni dell’opera narrativa, ne fa oggetto di studio e di saggi come Ville Italiane e loro Giardini, 1904 (Italian Villas and Their Gardens) Scenari Italiani, 1905 (Italian Backgrounds). Tutti i racconti di questa edizione sono ambientati in Italia, il suo paese d’elezione. Il primo, La Tragedia della Musa (The Muse’s Tragedy), il cui titolo rimanda non a caso al romanzo The Tragic Muse di Henry James, apparve nella raccolta The Great Inclination del 1899. La storia, in tre parti, ha luogo in Italia, tra Villa d’Este, il lago d’Iseo e Venezia. Mary Anerton è la musa dell’acclamato poeta Vincent Rendle, di cui Danyers, giovane studioso, è un profondo estimatore.  Grazie alla mediazione di un’amica, Mrs. Memorall, dopo alcuni anni dalla scomparsa del poeta, riesce ad entrare in contatto con la signora Anerton, di cui si innamora dopo una vacanza trascorsa con lei a Villa d’Este; sembra l’inizio perfetto di una relazione ma l’epilogo finisce per decostruire il crescendo emotivo dell’apertura: con una lettera la donna confessa a Danyers che non potrà amarlo, confidandogli le ferite di una tragedia interiore che non le consentirà mai di essere amata da un altro uomo, e trascinando inesorabilmente anche Renders nella tragedia. Contrariamente a quanto credono amici e ammiratori, il suo amore extraconiugale per il poeta non era mai stato corrisposto: in realtà Rendle, pur avendo vissuto per quindici anni a stretto contatto con lei, godendo così intensamente della sua presenza per la propria ispirazione creativa, non l’aveva mai considerata nel suo essere donna. Il destino tragico della negazione emerge alla fine, del tutto inatteso come nella migliore tradizione, è disperato e insanabile. La narrazione si svolge, come spesso accade nei testi della Wharton, a tratti, con pennellate che aprono all’intervento e all’immaginazione del lettore. Oltre al tema dell’amore e delle convenzioni sociali, il racconto è centrato sul rapporto tra vita reale e arte.

Lo ritroviamo in maniera ancora più evidente in Il Verdetto (The Verdict), del 1908, dove la storia, ambientata in Riviera, ruota intorno a tre artisti e tre dipinti, che descrivono in modo indiretto la relazione tra realtà e rappresentazione, essere e apparire, dentro il contesto rigido e immutabile di una classe sociale che si alimenta di cliché e stereotipi. Anche in questo caso la storia si dirime al termine, quando il protagonista, Jack Gisburn, un pittore di mediocri qualità ma al colmo del successo, decide di abbandonare per sempre la pittura di fronte alla sua incapacità di dipingere il ritratto del grande artista Strout, commissionatogli dalla moglie di questi appena dopo la sua morte. L’evento illuminante è collocato al termine della storia, è un’epifania diremmo con Joyce, e proprio come nei dublinesi, i protagonisti di questa e delle altre storie, non riescono a sottrarsi alle leggi ferree e alla psicologia collettiva dell’ambiente sociale cui appartengono. Non sfuggirà, qui come nell’intera opera di Wharton, il tema del doppio e dello specchio, tanto caro alla letteratura inglese e che nel Dorian di Wilde aveva forse trovato la sua massima espressione moderna.

Il Divertimento di una notte a Venezia (A Venetian Night’s Entertainment), del 1903, è una storia più agile, ambientata nei giorni di Carnevale in una Venezia del Settecento, in cui il giovane e danaroso Tony Bracknell, appena sbarcato da un mercantile americano nella tanto agognata e idealizzata città dei sogni, è coinvolto in un raggiro dai caratteri esilaranti, tra malintesi e colpi di scena che nell’epilogo rivelano con chiarezza la truffa ai danni del protagonista. Pur nella leggerezza del background, ritornano i temi del doppio e della maschera, oltre al disvelamento dell’uso strumentale della falsa morale in materia di relazioni coniugali e codici sociali.

Di qualche anno prima è La Duchessa in Preghiera (The Duchess at Prayer), una storia ai confini del romanzo gotico, ambientata in una villa palladiana del Veneto, che ben restituisce il gusto dell’autrice per l’Italia. Qui il paesaggio e gli interni sono forse i veri protagonisti del racconto, poiché la descrizione dettagliata, realistica e al contempo simbolica, degli elementi vegetali, artistici e architettonici ci conduce quasi fisicamente nel luogo. La voce narrante in prima persona è di un visitatore accompagnato da un anziano custode, che dalle opere d’arte, le statue e le stanze della villa, trae spunto per narrare la storia e il destino della Duchessa Violante, che l’aveva abitata duecento anni prima. L’atmosfera è di un tempo immobile e stagnante ma denso di circostanze e personaggi che sembrano ancora dimorare nella villa e che mantengono desta la tensione sino alla fine, allorché il lettore comprende la dinamica di una crudele vendetta ordita con freddezza dal Duca nei confronti della moglie adultera. Anche in questo caso ricorre il tema del doppio, rappresentato dal volto di una statua della cappella, fatta scolpire dal Bernini a immagine della Duchessa, che alla sua morte muta la sua dolce espressione estatica in una di terrore e sofferenza.

Conclude la raccolta il racconto che dà il titolo al volume, Febbre Romana (Roman Fever) del 1934, uno tra gli ultimi e più noti della scrittrice. È il ritratto di due ricche vedove americane di mezza età, Grace Ansley e Alida Slade, ritornate in vacanza a Roma con le rispettive figlie, Barbara Ansley e Jenny Slade. Le due amiche sono riprese in conversazione nel fantastico scenario di un albergo panoramico sul Palatino e il Colosseo, mentre le figlie sono fuori con i rispettivi fidanzati. Amiche dalla gioventù, hanno trascorso entrambe la loro vita tra Manhattan e Roma e ora, tra il pomeriggio inoltrato e il tramonto, ripercorrono la loro vita e i momenti importanti della loro amicizia, alternando silenzi e un meccanico lavoro a maglia, che sembra l’allegoria delle loro stesse esistenze. La simmetria delle due è data dalla loro complementarietà nell’aspetto come nei rassicuranti luoghi comuni che segnano la conversazione, sino a quando Grace rivela che Barbara è figlia di Delphin, il marito di Alida. La rivelazione di una verità che diventa uno shock decisivo, come negli altri racconti, incrina fragorosamente le certezze tranquillizzanti di una vita mondana, vissuta all’ombra di una falsa morale e delle apparenze.

Come rileva la curatrice nell’introduzione, la critica letteraria ha a lungo attribuito a Edith Wharton un ruolo minore, considerandola una scrittrice legata a uno stile e a temi sostanzialmente ottocenteschi. Fu Edmund Wilson, nel 1973, a rivalutarne per primo le qualità e la grandezza sia per ciò che riguarda la capacità di raccontare la società americana del suo tempo, sia per l’acuta analisi psicologica dei suoi personaggi. Più di ogni altra è stata la critica femminista a mettere in luce il modo con cui la scrittrice esplora la vita interiore, la coscienza e il coraggio di molti suoi personaggi femminili.  Alcuni critici contemporanei vanno anche oltre, individuando nella scrittura di Wharton caratteri pienamente novecenteschi, persino modernisti, nell’uso di una narrazione a tratti ellittica e discontinua, del linguaggio simbolico, delle improvvise illuminazioni nella vita dei personaggi e nell’adozione di un personale metodo mitico con la giustapposizione contestuale di epoche diverse. Modernista è soprattutto il ruolo attivo attribuito al lettore, a cui pone quesiti piuttosto che fornire risposte. Sono convinto che la scrittrice anticipi un gusto e strategie narrative ampiamente accolte e sviluppate più tardi nella letteratura tra le due guerre. Nel mostrare i comportamenti meccanici e spesso inconsapevoli dei suoi personaggi, Edith Wharton induce il lettore a una presa di coscienza, lo invoglia a porre una distanza liberatoria dall’impasse delle relazioni su cui dirige la macchina da presa della sua narrazione: in definitiva ci invita a scrutare con analitica lucidità la scena umana per diventarne parte più attiva.

 di Gaetano Barbarisi

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