La colpa e il contagio: il racconto delle epidemie nell’opera di grandi scrittori contemporanei

dicembre 7, 2020 in Approfondimenti, Letteratura da Federica Biglino

Federica_EpidemiaIn questi tempi molto particolari per il nostro mondo contemporaneo e iperconnesso esamineremo il tema del contagio e dell’epidemia da un punto di vista un po’ particolare: il racconto dei grandi autori contemporanei.

Il nostro tempo recente, come è noto, non ha avuto ( o ha avuto in modo molto sporadico) esperienze dirette di malattie terribili capaci di stravolgere la quotidianità.

La chiave di lettura sarà dunque quella del rapporto tra la diffusione delle epidemie e il meccanismo psicologico che porta a collegare il contagio al concetto di natura etica “ di colpa” e all’interpretazione trascendente legata alla diffusione del contagio stesso.

Un noto saggio del 1974 di William H. McNeill, La peste nella storia, è uno dei testi che meglio analizza la frequenza e l’incidenza delle epidemie nella storia dell’umanità con grande rigore scientifico e una straordinaria quantità di documenti . Come è noto, la tesi dello studioso ( ma in realtà non solo la sua) è che le epidemie, che hanno fatto da sempre parte della storia dell’umanità, siano da ritenersi spesso concausa di svolte epocali per l’umanità. Basti pensare le complesse conseguenze politiche, sociali ed economiche che seguirono la grande pestilenza del 1348 – 1350 e che portarono all’affermazione dell’Umanesimo dalla fine del XIV secolo.

Scrive Mc Neill : “ Le malattie infettive che precedettero l’ ‘ emergere del genere umano e dureranno quanto l’umanità stessa, rimarranno certamente , come lo sono state finora, uno dei parametri e elementi fondamentali della storia umana.”

Il problema è che l’uomo non ha mai imparato a guardare alle epidemie come a «uno dei parametri e degli elementifondamentali della storia umana» e ad affrontarle in maniera razionale; il loro carattere episodico ed estremamente distruttivo, come in un certo senso è comprensibile, ci porta a considerarle alla stregua di un evento eccezionale e a cercare per il loro avvento non tanto una causa scientifica quanto una spiegazione straordinaria, che pretende di avere un fondamento morale, e magari è dettata da rabbia, angoscia, o pura emotività.

Il romanzo contemporaneo più conosciuto e celebrato che tratti in maniera distopica il tema del contagio e del giudizio morale ad esso riferito è senz’altro “ La peste” di Albert Camus.
Per Camus,semplicemente il male nel mondo esiste, per quanto ci appaia assurdo e non spiegabile, e non c’è bisogno di ricorrere a nessuna trascendenza per giustificarlo, né serve scovare e punire dei presunti responsabili anche quando la
colpa di costoro è tutt’altro che evidente; piuttosto, si deve reagire solidaristicamente ad esso, e combatterlo con le armi che si hanno a disposizione.

 

Susan Sontag

Susan Sontag

Quello che Camus sostiene venne in parte richiamato una trentina di anni dopo, nel 1977, da una delle pensatrici americane più acute e originali della seconda metà del Novecento, Susan Sontag, che in “ Malattia come metafora”, parlando in realtà del cancro che l’aveva colpita, analizza la tendenza del malato a sviluppare una sorta di senso di colpa e a vedere la malattia come un misterioso castigo.

La malattia non è una metafora,e uno dei modi più onesti di guardare alla malattia – e uno dei modi più sani di essere malati- è quello che si depura e si difende dal significato metaforico.”

Il “pensiero metaforico”, per la Sontag, è quello che conduce a una interpretazione trascendente della malattia, a una sua giustificazione supernaturale (se non proprio sovrannaturale), che è inevitabilmente connessa all’idea della malattia come conseguenza di una colpa o come una punizione. E’ insomma un modo di avvalorare i triti stereotipi irrazionali e i peggiori pregiudizi.

Eppure spesso, senza che ci si renda bene conto della cosa, questa tendenza all’interpretazione metaforica della realtà, con tutti i pregiudizi ad essa collegata perdura ed opera in noi e ci conduce a deformazioni a volte grottesche del mondo.

Diceria dell'untore

Diceria dell’untore

Prendiamo un altro testo significativo: “Diceria dell’untore”di Gesualdo Bufalino. Il libro ebbe una lunghissima gestazione, iniziato negli anni Cinquanta e poi completato nel decennio antecedente la sua pubblicazione.

Il protagonista narratore omodiegetico è ricoverato alla Rocca, un sanatorio sulle colline sovrastanti Palermo alla fine della seconda guerra mondiale. Qui conosce un ‘umanità dolente, malata e disillusa riguardo la giustizia umana e divina e tra questi disperati spicca la figura di Marta. Marta è stata ballerina alla Scala, è una bella e delicata ragazza colpita da due stigma: è gravemente malata di tisi e ha subito la rasatura a zero dei capelli a causa di una relazione con un ufficiale nazista. La colpa di Marta è quindi doppiamente simbolica e sembra in qualche modo voler indicare una sorta di giustizia storica: la colpevole di connivenza col nemico è stata colpita dalla punizione divina. Il protagonista e Marta fuggono dal sanatorio verso il mare, ma una violenta crisi uccide Marta. Esaminando i documenti della ragazza il protagonista ha una rivelazione sconvolgente: il vero nome della ragazza è Levi. Questo naturalmente mette in discussione tutta la vicenda della ragazza e ogni possibile interpretazione della “ colpa” e del castigo.

Per concludere questa brevissima carrellata ( i titoli e gli autori da citare sarebbero moltissimi e tutti di altissimo profilo), farò riferimento a un bel romanzo poco noto di una scrittrice australiana, Joan London. “ L’età d’oro”( Goden Age” è il titolo originale) è un romanzo del 2014 in cui si esamina l’idea del contagio e il superamento della logica della colpa.

In un sanatorio di Perth, negli anni Cinquanta e poco prima che Sacks e Sabin mettessero a punto il vaccino antipolio, liberando così il mondo da una spaventosa piaga, sono ricoverati i bambini e gli adolescenti che hanno contratto questa terribile malattia. Sono spesso irrimediabilmente storpi, alcuni condannati a vivere in un polmone d’acciaio. Tra questi, il protagonista, Frank ( “Feri”) è un ragazzo ungherese scappato alla persecuzione nazista assieme ai genitori . Sono arrivati da poco a Perth, e hanno ricominciato faticosamente a rimettere assieme i cocci della loro esistenza ( molto belle sono le pagine che descrivono la vita da perseguitati nascosti in cantina a Budapest prima del pericoloso viaggio verso la libertà).

La convivenza con una società europea agli antipodi del mondo è difficile e complicata, e probabilmente rispecchia un sentimento diffuso in Australia: la difficoltà di conciliare origini estranee ad un contesto locale completamente differente.: basti leggere la descrizione dei preparativi del Natale in una città dove la temperatura è sui 30 gradi.

I genitori di Frank, Meyer e Ida, cercano in tutti i modi di adattarsi alla nuova vita. Vivono in condizioni modeste e vedono in Frank il possibile riscatto rispetto ad un destino terribile che ha travolto loro e tutta la loro famiglia. Ma la cattiva sorte sembra accanirsi su queste vite già così provate, e la malattia di Frank viene percepita come un castigo che non lascia scampo e che li vuole perseguitare anche ai confini del mondo. Solo Frank sembra porsi in maniera differente rispetto alla malattia, non vuole arrendersi ad un destino che sembra già segnato. In sanatorio conosce Elsa, una bella ragazzina malata, e in lei vede finalmente l’amore e la possibilità di un futuro che possa prescindere dai segni che la malattia lascerà sul corpo di entrambi.

In tutta la prima parte del romanzo, il collegamento della malattia con una volontà trascendente si può dire condiviso da tutti i personaggi, siano essi i giovani malati, i loro genitori, le stesse infermiere e i medici

 

“Di tutte le prove che aveva dovuto subire, questa era
stata quasi sul punto di distruggere Meyer, anche se Frank
non l’avrebbe mai saputo. Come se una maledizione li
avesse inseguiti dal vecchio mondo e non avesse ancora
finito con loro; come se avesse ancora il più crudele
degli assi nella manica. Non essere riuscito a proteggere
il figlio coronava il suo senso di fallimento, di
impotenza.”.

 

Al cospetto di questo opprimente, cupo, senso di colpa, il fresco legame che nasce tra Frank ed Elsa diventa occasione di rinascita, un modo per sentirsi di nuovo vivi e perfettamente padroni di sé, di non dovere rendere conto di nulla a nessuno, di spazzare via ogni stupido, irrazionale imbarazzo nutrito nei confronti dei «sani» per il semplice fatto di essere stati colpiti dalla malattia.

 

Stare vicini li rendeva più forti. Si fermavano a parlare
in veranda o nel prato sul retro. I loro volti avevano
preso colore. Ormai da settimane avevano cominciato a
condividere la fatica solitaria della riabilitazione, e
facevano insieme gli esercizi. La fisioterapista scozzese
lodava il loro impegno e i loro rapidi progressi.

 

Una sera, Elsa e Frank vengono scoperti a scambiarsi effusioni sul letto di lei.

Dopo l’incidente della scoperta di Frank nel letto della ragazza, nessuna comprensione viene dimostrata dagli adulti per i loro sentimenti, e per l’importanza che il legame avrebbe avuto nel favorire il cammino dei due ragazzi verso la guarigione e il ritorno al mondo.
Alla fine fu deciso che dovevano andarsene tutti e due.
Quando la interrogarono Elsa non dichiarò che Frank avesse
agito contro il suo volere. Non disse neanche una parola.
Al suo arrivo aveva visto una serie di volti così vecchi e
cupi, così pieni di ipocrisia, così aggrottati per la
disapprovazione da avere le mascelle cascanti e gli occhi
bassi.


Espulsione, per i due ragazzi, vuol dire non poter completare il percorso rieducativo e avere quindi maggiori possibilità di non rimanere menomati;: per i membri del consiglio di amministrazione è come se Frank ed Elsa avessero osato sfidare quel Dio che dopo averli colpiti aveva concesso loro una seconda possibilità, e per questo meritano di essere puniti.

Anni dopo gli avvenimenti del Golden Age, alla fine del romanzo, Frank ( che ormai è anziano ed è diventato un affermato scrittore) incontrerà a New York, Jack, uno dei figli di Elsa che è diventata un medico e ha avuto tre figli. Jack gli racconterà un episodio di alcuni anni prima che illustra bene come la piccola Elsa aveva saputo reagire alla malattia.

Cercava di salire sulle dune dopo una nuotata ed era
in difficoltà. Avanzava di tre passi e poi scivolava
indietro di due. Jack sapeva che non doveva andare
ad aiutarla, e nemmeno farle sapere che si era
accorto della sua presenza. La regola era che niente
era mai troppo per lei. Quando finalmente arrivò in
cima, Jack era per metà infuriato e per metà in
lacrime. Sua madre si sdraiò lassù e rimase immobile
per diversi minuti.

 

Mi piace chiudere con questa bella immagine di tenacia e di speranza offerta da Joan London: il male esiste, le sventure capitano perché fanno parte di questo
mondo; ma l’uomo può utilizzare le sue capacità, la sua intelligenza, la sua razionalità e la sua forza d’animo per affrontarle con coraggio senza cedere alla disperazione e alla rassegnazione.

Federica Biglino

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