Riconoscere le vittime: il caso di Davide Bifolco

settembre 18, 2014 in Approfondimenti da Damiano Cason

bifolco3-kEWF-1280x960@ProduzioneSollecitato dalla discussione pubblica che assume tratti paradossali riguardo la morte di Davide Bifolco, ucciso a 16 anni da una pallottola a Napoli, scrivo per cercare di mettere un po’ d’ordine, prima di tutto a me stesso. L’opinione pubblica è una platea che a piacimento viene divisa dai media o dagli stessi singoli individui che la compongono in differenti categorie, spesso contrastanti tra loro perché vi sia una dialettica. Riguardo alla questione in causa potremmo dividerla in simpatizzanti dell’autorità e suoi antagonisti. E di qui è facile passare alle categorie “simpatizzanti per l’operato delle forze dell’ordine” o “astiosi” nei loro confronti. Stiamo sempre parlando di sentimenti di pancia, non di fini ragionamenti teorici e nemmeno di pratiche di strada, le quali al massimo da questi atteggiamenti primari possono prendere forma. Stanti queste categorie, non è detto però che non si possano fare dei ragionamenti razionali che privilegino uno dei due campi o smontino le retoriche dell’altro.

Tendenzialmente i tifosi dell’autorità hanno addotto due motivazioni principali, tra le altre, per giustificare in qualche modo il carabiniere che ha ucciso il ragazzino:

– Il ragazzino non si è fermato a un posto di blocco, se l’è andata a cercare;

– Napoli è un contesto molto particolare, dove è difficile fare il carabiniere perché il tasso di criminalità è altissimo ed è quindi molto più facile incappare in errori.

 Partiamo dalla prima questione. Ho scoperto in questi giorni, ad esempio, che esiste una differenza tra “posto di blocco” e “posto di controllo”. Il primo è esattamente quello che chiamiamo “checkpoint” nelle operazioni militari, cioè i mezzi sbarrano la strada ambo i lati e vi si può trovare anche una barra chiodata che farebbe il suo effetto nel caso il veicolo cerchi di non fermarsi. Il secondo è quello che invece chiamiamo “posto di blocco” nel linguaggio comune (ma che in realtà si chiama appunto posto di controllo) nel quale le forze dell’ordine sono da un lato della strada e fermano con una paletta i veicoli a proprio piacimento per fare dei controlli. La pena per non aver osservato un posto di controllo è una multa e una detrazione dei punti patente. Non fermarsi al posto di blocco comporta le stesse sanzioni ma più pesanti. C’è poi la Legge Reale, ossia quella che permette di sparare in altri casi. Era una legge (che ha mietuto negli anni una lunga serie di vittime innocenti) che estendeva i casi di “uso legittimo delle armi” in funzione prevalentemente di antiterrorismo, ma richiederne l’applicazione a furor di popolo significherebbe esser pronti a subirla anche in caso di fuga per ragioni ben più futili come l’aver bevuto o l’avere con sé un quantitativo minimo per uso personale di sostanze stupefacenti, prassi consolidata in Italia: le forze dell’ordine non possono sapere a priori il motivo della fuga. Un’altra considerazione è che forzare un posto di blocco è più grave che forzare un posto di controllo: nel primo caso infatti le forze dell’ordine stanno cercando qualcosa o qualcuno di preciso, ad esempio un latitante. Questa parola è un altro concetto importante per il fatto in questione, perché, stando a quanto riportano i giornali, i carabinieri stavano appunto cercando un latitante (che comunque, in base alle testimonianze, non c’era). Nella narrazione mediatica alla quale siamo abituati giornalmente, però, “latitante” ha un significato peggiorativo rispetto al suo corrispettivo reale. Quando un lettore o un ascoltatore leggono o sentono la parola latitante pensano istintivamente a un criminale di grosso calibro, magari un camorrista o un boss mafioso, probabilmente un assassino se non uno stupratore. Ma latitante può essere anche un ragazzino che ha rubato un motorino (e il caso in analisi sembrerebbe simile) o che ha venduto qualche grammo di marijuana ai propri amici più intimi: insomma potrebbe essere il figlio di qualsiasi lettore, perché non c’è alcun bisogno di essere associati a cosche mafiose o aver cresciuto i propri figli come assassini perché accadano cose del genere in adolescenza, anche per chi vive nella gabbia dorata della ricchezza. “Latitante” significa infatti, come è facile vedere a mente lucida “che latita”, “che manca all’appello”. Qualsiasi condanna a una pena detentiva (che non significa necessariamente carcere, possono anche essere i domiciliari, e anche con libertà molto ampie), per quanto poco grave possa essere, comporta la latitanza (sancita anche questa da un provvedimento giudiziale) in caso di assenza al controllo prestabilito dalle forze dell’ordine. Non solo, la condizione di latitanza non implica per forza di cose l’essere stati condannati: è sufficiente la condizione di indagato durante la quale siano state disposte delle misure cautelari detentive alle quali l’indagato si sia sottratto. Il latitante in questione, un ragazzino accusato di furto, si è costituito dopo la morte di Davide Bifolco, ammettendo tranquillamente di essere scappato (ma non su quel motorino). Insomma, un “latitante” non è necessariamente una persona che minaccia la vostra vita né quella delle forze dell’ordine. Ma c’è di più. Ammettiamo ora che il latitante fosse un pericoloso pluri-omicida già condannato e facente capo a qualche grande organizzazione criminale. Significa forse che l’obiettivo delle forze dell’ordine diviene la sua morte? No, in nessun caso tranne quello in cui sia egli stesso a minacciare gravemente la vita di qualcuno. In un paese democratico ognuno ha diritto a un processo regolare, alla difesa di un avvocato, al pronunciamento di un giudice, a un processo d’appello, al ricorso alla Corte di Cassazione ecc… Compito delle forze dell’ordine è fare in modo che tale processo possa avvenire, non il contrario. Il contrario significherebbe che le forze dell’ordine si sostituirebbero alla Costituzione e alle leggi dello Stato. E, badate bene, tutto ciò resterebbe valido persino se in Italia all’improvviso introducessimo la pena di morte: essa stessa sarebbe comunque un pronunciamento di un giudice al termine di un processo svolto in tutti i suoi gradi. Tutto questo si chiama stato di diritto. Negli articoli che mi è capitato di leggere (ma potrei sbagliarmi e non averne letti abbastanza) non ho mai trovato specificato se si trattasse di un posto di blocco o di controllo. Non ho mai trovato specificato di quale crimine fosse imputato (o solo indagato) il latitante. Non ho mai trovato scritto che, anche nel peggiore dei casi, la morte non è comunque prevista dalla legge e che anche se fosse prevista non spetterebbe alle forze dell’ordine sancirla. E queste mancanze danno l’illusione ai “tifosi dell’autorità” di trovarsi dalla parte della legge, mentre invece ne sono più lontani che gli “antagonisti”.

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Passiamo ora in analisi la seconda questione, quella che chiameremo “contesto Napoli”. E’ bene precisare subito che la differenza di contesti esiste e solo un idealista ingenuo o in malafede potrebbe dire il contrario. Ma un conto è tenere bene a mente questa condizione, un altro utilizzarla in modo strumentale. E’ differente dire “a Napoli c’è più probabilità di incappare in una sparatoria” (non entro nel merito della questione razzismo, altri l’hanno già fatto) e “a Napoli è più legittimo sparare a una vittima inerme”. Prendiamo ad esempio il “contesto” su cui siamo d’accordo tutti essere la massima espressione dell’uso della violenza: la guerra. Bene, anche per la guerra esiste il diritto (per l’appunto il diritto di guerra) e certe cose non si possono fare. Non è che non le possono fare i civili o peggio i combattenti irregolari: no, sono regole che valgono per gli eserciti regolari, e chi le infrange viene giudicato da appositi tribunali internazionali (non è qui utile discutere del loro funzionamento o della loro fondatezza). Addirittura, proprio per tener conto del “contesto” specifico, esistono per ogni singolo esercito delle precise “regole d’ingaggio”: esse sono quelle regole interne, date all’esercito dall’autorità, che cercano di aderire il più possibile alla specificità della situazione (senza contare il fatto che ovviamente ci sono cose che non si possono fare mai, come infierire sui civili, molestare donne o minori di un paese occupato ecc…). L’arma dei carabinieri è un corpo pubblico, ufficiale, organo dello Stato, addestrato e specializzato, all’interno del quale esistono delle regole e soprattutto all’esterno e sopra il quale esistono delle leggi. Affermare la supremazia del “contesto” su queste leggi significherebbe affermare che i carabinieri possono fare quello che vogliono e, a livello di diritto, questo potrebbe significare due cose: o che ci troviamo in una dittatura e non certo delle più morbide, oppure che ci troviamo in uno stato d’eccezione in cui a certi corpi dello Stato vengono attribuiti poteri speciali, il che è un contesto molto vicino alla guerra civile. Invece ci troviamo in democrazia e vigono le regole che la esprimono.

Ci sarebbero poi le questioni specifiche del caso, sulle quali non mi dilungo (la pistola che per sparare ha bisogno di una forza di pressione specifica e lo sparo non può essere ricondotto a una sbadataggine ecc…), perché il mio obiettivo polemico non è il caso singolo ma l’approccio generale. Coloro che dicono: “a Napoli c’è la Camorra ovunque, è legittimo che i carabinieri sparino pur nell’errore”, sostituiscono le forze dell’ordine allo Stato come ad esso si sostituisce la Camorra. Costoro dicono di non lottare contro lo Stato, ma contro la Camorra, e quel che intendono dire senza saperlo è che vorrebbero che lo Stato fosse la loro Camorra: è una spinta all’indietro, verso l’arretratezza, l’esatto contrario delle lotte (anche contro lo Stato) per una società “più democratica”, qualunque cosa ciò possa significare al giorno d’oggi.

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