Violenti o nolenti – appunti sul corteo NoExpo

maggio 6, 2015 in Approfondimenti da Damiano Cason

società dello spettacoloC’è un vantaggio nel non avere più una struttura politica cui fare riferimento: si possono sciorinare i propri pensieri senza alcuna mediazione, e forse così sono più utili alla discussione. Certo c’è anche il grande rimpianto di non poterci poi fare nulla, salvo rifletterne. E probabilmente a questo occorrerà mettere una pezza. Allora parliamo subito chiaro: nessuno si aspettava di andare a Milano pensando che non sarebbe successo nulla. Non solo i militanti, ma anche tutte le persone che frequentano le esperienze di movimento, sanno benissimo che un corteo del genere non può essere simile in nulla a uno sciopero della CGIL. Ci sono dei motivi storici, politici, filosofici e probabilmente pure antropologici per questo. 

Prima di tutto, dobbiamo fare i conti con questo nostro imprinting psicologico: nessuno di noi ha più voglia di camminare per qualche chilometro sventolando una bandiera, ascoltando “Bella Ciao”, mangiando un panino e cantando qualche coro tradizionale. O perlomeno, la voglia ci sarebbe anche ma, a fine giornata, vedendo i giornali ignorare completamente la cosa e senza aver fatto paura a nessuno, la sensazione di averla sprecata si fa pressante nella testa di un militante. Avremmo potuto usare quelle ore per mandare curricula, per studiare meglio un certa disciplina, per non saltare il turno e prendere quei pochi soldi necessari a campare, o semplicemente per dedicarci a un hobby che non comporta elucubrazioni così profonde. Invece c’è in noi il sentimento del nulla, il nulla politico che siamo capaci di esprimere, nel senso dei risultati che otteniamo.

La validità ideologica della scelta di schierarsi contro Expo è sotto gli occhi di tutti. C’è la mafia, i fondi pubblici, McDonald’s e CocaCola come sponsor, la speculazione edilizia, la mancanza di democrazia, la devastazione ambientale. Questo perché Expo è la grande fiera del capitalismo (contemporaneo). Il contemporaneo è tra parentesi perché Expo c’è dal 1800, ma ha vissuto, come è normale, un adattamento al nuovo modo di fare marketing e ai nuovi mezzi di produzione. Si parla infatti di “cibo”, in un epoca in cui il mondo occidentale tiene molto a far sapere cosa mangia attraverso i selfie sui social network. Saper cucinare e saper mangiare (nel senso di mangiare la cosa giusta al momento giusto, o nel posto giusto) sono diventati, più che necessità, degli hobby che interessano quasi tutti, e non si può nemmeno dire che questa sia di per sé una caratteristica negativa del ruolo che l’alimentazione ha assunto.

Lo è, però, se con la traduzione inglese di food si ottiene un effetto “kantiano” di percezione del fenomeno. Se il cibo è quello che viene preso dall’orto, lavato, messo ad essiccare con il sale, condito, tagliuzzato e infine servito ai propri familiari, il food volendo rappresentare quelle micro-dinamiche a misura di cittadino, dimentica completamente come avvengono quei processi nella dimensione di massa: il noumeno kantiano sarebbe la catena produttiva di quei cibi fatta di inquinamento, disboscamento, sfruttamento, malattie. Tutto questo è conoscibile e conosciuto, eppure nulla si fa contro tutto ciò, perché il cervello è saziato dall’Esposizione (Universale 2015) del fenomeno. Il libero mercato già da molto tempo ha detto che non vi è alcun valore oltre a quello di scambio. Nulla conta oltre il fenomeno, perché è quest’ultimo ad essere venduto. Non è così solo per il cibo ovviamente, ma anche per tutto il resto: quelli che erano soliti chiamarsi esseri umani ora si chiamano risorse umane o capitale umano. Eataly, per fare un esempio di azienda che sta pienamente dentro a Expo, riassume al meglio il binomio. Cibo di qualità, prodotto artigianalmente. Ma diffuso e venduto con contratti precari e mal pagati in un cattivo ambiente di lavoro. La nostra vita è assicurata, le pensioni dipendono da valutazioni di agenzie di rating, gli stipendi dalle variazioni di Borsa. Insomma, il sopravvivere del corpo dipende direttamente dalla sua astrazione, da come viene immaginato, dalla sua fotografia. Ma non è tutto qui. Il corpo (che non è altra cosa dalla mente) è sempre fatto di tossine, di acido lattico, di carne e di ossa logore, di serotonina. È così che si producono i pensieri, anche il nostro pensiero che non ha più alcun senso rispondere a tutto questo con una passeggiata.

È con questo pensiero che dobbiamo fare i conti se vogliamo fare i conti con il black bloc. Perché esso, contrariamente a quanto pensa chi di certo non è mai sceso in piazza, non è composto né da ignoranti né da infiltrati. Esso è una pratica politica che cerca di rispondere a questo pensiero, e proprio per questo trova anch’esso il suo consenso. Ad esempio nel ragazzo intervistato, evidentemente lì per caso (a meno che qualcuno non pensi che abbia senso coprirsi di nero per poi mostrare il proprio volto a reti unificate), solito capro espiatorio dei media. Va male a scuola (anche di questo gli viene fatta una colpa, del resto è la società meritocratica…), è giovane, di certo non ha una grande esperienza politica alle spalle come può averla un trentenne o ancor più un cinquantenne, dentro è pieno di tossine e insoddisfazione, un giorno si trova in un posto in cui, finalmente, succede qualcosa. Il giorno fortunato, addirittura un’intervista! Allora prova dire la sua, ancora non sa che verrà messo alla gogna dalla nazione. Forse era meglio starsene da soli a coltivare la rabbia, meglio chiedere scusa, e magari un giorno la sua faccia sarà sul megaschermo di Vespa in una puntata sulla cronaca nera.

Eppure, anche il blocco nero non è affatto uscito dal fenomeno né dal valore di scambio. Attacca la vetrina sul piano del simbolico, essa è la banca che rifiuta il mutuo, l’agenzia interinale che fa business sulla disoccupazione e sullo sfruttamento. E rivendica quest’immagine: l’ha rubata all’inaugurazione di Expo, ha avuto quel che voleva, gli altri vorrebbero essere al posto suo ma non ne hanno la forza. Non sanno più come si fa. I gommoni, gli scudi a forma di libro, violare le zone rosse (altro che ascoltare “Bella Ciao” e trovare rilassamento nel ricordo di un passato che non c’è più), eppure tutte queste pratiche, sebbene prevedano l’uso della forza (illegittima per lo Stato e quindi violenza), non trovano più spazio nelle immagini. È vero, il blocco nero trova il suo spazio e, per pochi istanti, lo nega al potere. Una vittoria, vorrebbe dire. Ma quale immagine ha trovato? Nessun’altra che quella delle macchine bruciate, e nessuno a immedesimarsi in esse. Allora forse è stato un riot, un’esplosione di rabbia. Ma non può essere entrambe le cose.

Che lo spettatore medio ci creda o no, ci sono stati spesso, anche recentemente, cortei più “pericolosi” di questo; qui tutto sommato la guerriglia si è limitata a qualche centinaio di metri (altro che “Milano a ferro e fuoco”) e senza mai uscire dal percorso prestabilito. Non può essere segno di intelligenza politica non prendere in considerazione il fatto che un gesto fatto in contesti diversi assume significati diversi. Non solo non c’è alcuna Baltimora a Milano, non c’è alcun legame del riot con il tessuto sociale. Ma anche tra epoche diverse, periodi diversi, l’uso della violenza è più o meno accettato. Freud, rispondendo a una lettera di Einstein nel 1932, dice che l’incivilimento progressivo porta l’uomo a interiorizzare la violenza sempre di più, piuttosto che sfogarla verso mete pulsionali. Da ciò deriva l’indignazione quando questo accade. Sia ben chiaro, l’interiorizzazione porta con sé altri pericoli, probabilmente socialmente peggiori.

Ciò non toglie che l’effetto che produce la violenza politica oggi non è lo stesso che produceva anni fa. Ma c’è anche un’altra cosa. Il mostro più grande creato dal blocco nero infatti è quello del giorno dopo. Il blocco dei cittadini responsabili. Come nei peggiori libri di fantascienza, bastino i più noti 1984 di George Orwell o Il tallone di ferro di Jack London, la popolazione si mobilita per difendere le stesse cose di cui parla male, malissimo appena si presenta occasione. Così il cittadino di Milano pulisce la vetrina della stessa banca che gli ha rifiutato il mutuo, il muro di proprietà del palazzinaro che l’ha sfrattato, l’insegna dell’agenzia interinale che guadagna soldi offrendo al figlio contratti sottopagati o addirittura gratuiti. Nella giornata libera dal lavoro, il cittadino di Milano lavora ancora, per le stesse multinazionali per cui ha lavorato tutta la settimana. Con il suo lavoro gratuito ne toglie al lavoro pubblico e pagato e toglie spese alle assicurazioni. Maroni lamenta 1,5 milioni di danni, così facendo intendere che “i nostri soldi” vengono buttati via: in che senso? Nel senso che bisognerà pagare qualcuno per riparare i danni. È questo il nuovo modello, disinvestire sul pubblico in rovina per lasciare tutto a un privato (altrettanto in rovina) che, incapace di assorbire la forza lavoro, se ne avvale gratuitamente in cambio di attestati/esperienza/promesse di lavoro futuro. Un modello che non si esprime certo nella giornata di questi cittadini ovviamente.

Anche questo è solo un simbolo, un fenomeno. Molto più probabilmente si abbatte sulle persone di età inferiore che erano al corteo il giorno precedente. Il gesto del cittadino ha sui giornali la stessa eco di quello del blocco nero: trionfante su tutto il resto, ingigantito. Ma che sicuramente ha trovato il suo consenso. Il blocco nero pensa, con una testa collettiva, che non ha senso sperare che i grandi media parlino bene di un movimento che contesta proprio il sistema che li possiede. Però poi rivendica l’immagine, però poi ha bisogno di comunicati per spiegare questa pratica. Non è forse questa l’essenza della manifestazione? Il manifestarsi, il rendersi visibili per come si è. La politica vera sta da un’altra parte, sta nei percorsi reali di riappropriazione (di case, di cultura e anche di cibo, sì) sui territori. Nel manifestarsi non conta altro che il fenomeno e il valore di scambio. Non servono fini analisti per capire che s’è fatta brutta figura.

Eppure i violenti a dover essere veramente isolati sono proprio quei cittadini che hanno pulito Milano. Per loro la definizione di catastrofe, di cosa grave, di violenza, sono le scritte sui muri e i vetri rotti. Non sono poi così gravi invece i 700 morti in mare di qualche settimana prima. Su questo non c’è alcuna mediazione politica, non c’è alcuna razionalità che lo permetta. È  una questione di cuore. Prima o poi, al di fuori della propria piccola famiglia, bisognerà cominciare a parlare anche con quello. O qui si mette male.

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