Guerra e pace: occhi aperti su un presente che ci riguarda

agosto 9, 2020 in Approfondimenti, Recensioni da Laura Giuffredi

Guerre_copertinaPartiamo dalla dedica di questo “Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo” (9^ edizione, Terra Nova Edizioni, sett. 2019): “A chi pensa, a ragione, che la buona informazione sia indispensabile per democrazia e pace”.

Ottima premessa. E questo volume è sicuramente un esempio di ottima, capillare informazione sul mondo d’oggi, alla voce “guerre e conflitti”, ma anche riguardo a “situazioni di crisi” genericamente intese, con un quadro sulle missioni ONU in corso. Con la precisa cartografia ed l’esauriente glossario di cui si correda, lo studio è una fonte sterminata di notizie, che ci consentono di prendere le distanze da pressappochismo e fake news.

Stiamo ai dati aggiornati al giugno 2019: le guerre in corso sono ben 30, tre in meno rispetto all’inizio del 2018; Algeria, Haiti e uno dei conflitti indiani sono diventati “zona di crisi” (cioè si è abbassato il livello di scontro) ; di tali “zone” se ne contano complessivamente 18.

Numeri comunque non da poco.

peters-140513091430-phpapp01-thumbnail-4Per inquadrare la situazione globale il volume utilizza la carta “Peters”, anzichè la più nota carta di Mercatore, perché più vicina alle dimensioni reali di Paesi e continenti: un primo sforzo di verità.

Ma il discorso parte da lontano, senza pericolose semplificazioni: non si può parlare di guerre, e quindi di pace come alternativa ad esse, se non teniamo presente che abbiamo, per esempio, solo 12 anni di tempo (fonte ONU) per invertire la rotta del clima; o che metà del pianeta vive con 5 dollari al giorno.

O, ancora, che al 10 maggio 2019 l’Europa, il resto del mondo a fine luglio, avevano già cominciato a consumare le risorse del 2020.

Ma purtroppo come cittadini siamo pigri, distratti, male informati: a questo proposito colpisce che oggi in Italia il 40% della popolazione non sia in grado di leggere e capire un libro; in Europa solo il 22% ne compra almeno uno all’anno.

Il “sistema”, se così vogliamo chiamarlo, ha attaccato informazione e cultura a tutte le latitudini, costruendo i presupposti per ridurre gli spazi di libertà e democrazia reale.

Il problema, uno dei tanti, è che con queste premesse, si alzano i livelli di scontro e conflittualità, generando un malessere per cui, al momento, sono in movimento 250 milioni di persone.

Eppure c’è chi non si rassegna al primato della forza e della violenza.  Ricordiamo alcuni passi fondamentali degli ultimo 20 anni:

1997: messa al bando delle mine grazie a varie iniziative di mobilitazione civile (premio Nobel per la pace 1997)

2008: convenzione sulle munizioni a grappolo.

2017: campagna sulla messa al bando del nucleare (premio Nobel per la pace 2017).

E ricordiamo nomi come quelli di Iqbal Masih, Malala Yusafzai, Greta Thunberg: la terra salvata dai ragazzini? Vogliamo sperarlo.

Certo il problema climatico viene ultimamente osservato con nuova consapevolezza. A giugno 2019 il relatore delle Nazioni Unite su povertà e diritti , Philip Alston, ha parlato chiaramente, per la prima volta, di “apartheid climatico” : le fasce più ricche avranno i mezzi per sfuggire a fame e catastrofi causate dai cambiamenti climatici, mentre il resto, la stragrande maggioranza, è destinato a soffrire, pur contribuendo alle emissioni per appena un decimo.Guerra2

Secondo l’ONU il cambiamento climatico “minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale, nella riduzione della povertà e potrebbe condurre oltre 120 mln di persone in situazione di povertà entro il 2030”, e questo non può che generare conflitti.

Ma i cambiamenti climatici sono conseguenza di un modello economico (estrazione, produzione, consumo, smaltimento) basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e sulla generazione di profitti concentrati in poche mani, mentre le esternalità negative sono puntualmente riversate sulla collettività.

 

E perciò il cerchio si chiude, torniamo ai conflitti, perché le guerre (e le migrazioni) si muovono sempre a partire da queste premesse: mancanza di diritti, ingiusta distribuzione ricchezze, spreco di risorse, devastazioni ambientali; problematiche che vedono oggi anche un lessico aggiornato: desertificazione e “land grabbing”.

Secondo il Global Humanitarian Overview dell’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) una persona ogni 70 nel mondo si trova coinvolta in situazioni di crisi e ha urgente bisogno di assistenza e protezione umanitaria. Il numero di sfollati e rifugiati a causa di conflitti ha superato, secondo i dati UNHCR, i 70 milioni (10 anni fa erano 42 milioni).

Guerra 4E non dimentichiamo che oggi i civili costituiscono ancora la maggioranza delle vittime delle guerre.

Ma il problema rimane più a monte: la più aggiornata ricerca OXFAM chiarisce che l’1% della popolazione mondiale controlla una ricchezza aggregata, complessiva, pari al 47,2% della ricchezza mondiale; il 50% della popolazione mondiale (3 miliardi e 800mln) ha lo 0,4 della ricchezza del pianeta. E la proporzione va peggiorando di anno in anno.

Se oggi 3,4 miliardi di persone vivono con meno di 5,5 dollari al giorno, quasi 2 miliardi e mezzo non raggiungono 1,9 dollari al giorno.

Inoltre iniqua risulta la distribuzione del carico fiscale, per cui chi più ha, meno paga: solo 4 centesimi per ogni dollaro raccolto dal fisco, sono legati a imposte sul patrimonio; il resto viene da tasse su redditi da lavoro o del mercato. Se all’1% più ricco venissero aumentate le tasse dello 0, 5 % si risolverebbero alla radice e per sempre i problemi dei 2 miliardi e 400 milioni più poveri.

Il quadro che viene delineato dall’ “Atlante” passa in rassegna un continente dopo l’altro e la tentazione è quella di lasciarsi prendere dallo sconforto; ma, pur nella lucida consapevolezza che molte situazioni paiono senza via d’uscita, bloccate in un assurdo gioco al massacro, metaforico e letterale, vogliamo, invece, puntare i riflettori su quei fatti che l’ indagine definisce “Tentativi di pace”, equamente distribuiti ai quattro angoli del globo, persino nei contesti più atroci.

Se partiamo dall’Africa, scopriamo ad esempio che in MALI, si consuma una lotta estrema per la vita, cioè per la terra, che è sempre meno, contesa tra agricoltori e pastori; ma il progetto RE.TE, di una Ong italiana, lavora per lo sfruttamento razionale delle acque, la selezione dei semi, la loro conservazione e commercializzazione, individuando in questi passaggi la via per la pacificazione nazionale.

In NIGER, dove sono presenti 4.000 soldati stranieri (francesi, statunitensi, tedeschi e italiani) a cercar di gestire il controllo delle rotte migratorie e garantire l’accesso alle materie prime in contrasto al terrorismo di matrice islamista (Isis; Boko Aram e altri), il 26 marzo 2019 sono iniziati i lavori per la centrale idroelettrica di Kandadji, nel bacino del fiume Niger; l’opera vede il concorso dei 24 paesi limitrofi, nel tentativo di garantire un netto miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni (approvvigionamento di elettricità, riserve d’acqua, sicurezza alimentare).

In NIGERIA, ”Peace Iniziative Network” (PIN) sostiene la formazione di squadre di calcio per mettere insieme giovani di gruppi etnici e religiosi diversi, incentivando il dialogo come alternativa alla violenza.

Considerando l’Africa nell’insieme, forse la notizia migliore ha a che fare con l’avvio ufficiale alla Zona di Libero Scambio Continentale Africana (AFCFTA), che mira a includere il 90% di tutti i beni commerciati nel continente e potrebbe avere effetti positivi per il suo sviluppo industriale/commerciale: le frontiere interne potrebbero diventare più permeabili per le persone che cercano lavoro e opportunità. Naturalmente, non bastano le libertà economiche, servono anche le libertà politiche.

guerra3In questo senso sono drammatiche le situazioni di Libia, Egitto, Sudan, Nigeria, Camerun, per non dire della sospensione di diritti in Algeria e Marocco; le nuove amministrazioni salite al potere in Etiopia e Angola hanno fatto aumentare le speranze in passi avanti nel rispetto dei diritti umani, a partire da una certa sensibilità all’abolizione della pena di morte. Ma il quadro è molto frammentato e le prospettive sono a lunghissimo termine.
Intanto, la Cina è protagonista in Africa da almeno due decenni e ad essere attivi sono soprattutto i privati : 10.000 aziende cinesi nel continente, soprattutto in Nigeria, e Zambia. Ad arrivare dovrebbero essere soprattutto industrie manifatturiere e di servizi, con conseguente trasformazione del continente da fornitore di commodities (materie prime) a esportatore di prodotti industriali; ma attualmente il risultato è l’allargamento della forbice di disuguaglianza economica. Le persone cercano soluzioni migrando, lasciando la campagna per la città, il proprio paese per altri, di solito vicini. La migrazione verso l’Europa è marginale, ma il continente africano è in continua crescita demografica, raggiungerà i 2 miliardi e 500 milioni entro il 2050, con un’età media al di sotto dei 20 anni, e solo la pace potrà sostenere qualunque tentativo di sviluppo.

Nel resto del globo non mancano situazioni di crisi anche drammatiche, ad esempio nel Centro-Sud America, dove la povertà e l’insicurezza sono aggravate dalle problematiche ambientali, o in Asia, dove il futuro ci parla, tra l’altro, di difficile accesso all’acqua e di innalzamento dei mari, con conseguenti profughi ambientali dalle regioni costiere.

Ma anche qui, incredibilmente, si aprono “tentativi di pace” interessanti: gli otto paesi della regione Himalaya-Hindu Kush (Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, Cina, India, Myanmar, Nepal e Pakistan) stanno collaborando su questi problemi e lavorano a progetti operativi di cooperazione transfrontaliera e sviluppo delle aree montane. Un’iniziativa simile di cooperazione scientifica ed operativa è nata in Sry Lanka per le problematiche del bacino dell’Indo.

E l’Europa? Le tensioni non mancano, mentre le politiche di contrasto all’immigrazione continuano a dettare l’agenda politica: la deriva dei diritti umani, che ha visto protagoniste negli ultimi anni Ungheria e Polonia, ha raggiunto altri paesi.

Intanto, per i giornalisti, l’UE non è più un luogo dove svolgere il proprio lavoro in sicurezza, e questo preoccupa non poco: assassinati a Malta, in Slovacchia, Bulgaria e Irlanda del Nord; in Italia sono saliti a 22 quelli sotto scorta. In RUSSIA chi si occupa di corruzione o sue connessioni con la criminalità, viene zittito, nel migliore dei casi con una condanna basata su accuse false.

Su tutto, comunque, ci ha colpito un dato sul quale non si riflette abbastanza: il Mediterraneo è la frontiera più pericolosa tra paesi che non sono in guerra. Guerra migranti

Tra 2015 e 2017 sono documentati nel mediterraneo oltre 15.00 morti; dal 2019 non ci sono più navi militari impegnate nel soccorso. Per il diritto del mare, però, chiunque sia in grado di intervenire per salvare persone in pericolo è obbligato a farlo: la presenza di ONG dunque appare fondamentale e svolge anche la funzione di testimoniare ciò che accade.

Gli ultimi dati che riportiamo (fonte UNHCR), e che danno la misura di uno scenario dinamicamente drammatico, sono questi: nel 2018 il numero di persone in fuga nel mondo ha raggiunto i 70,8 milioni, tra rifugiati (25 mln), richiedenti asilo (3,5 mln), sfollati interni al loro paese (42 mln).

Nel rendercene conto, possiamo intuire facilmente quanto sia velleitaria, oltre che ingiusta, la costruzione di muri di qualunque altezza e materiale.

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