Il segreto del tasso [6]

agosto 26, 2016 in Letteratura da Silvano Danesi

thumbnail_Sacerdote-druidoLo stavano aspettando da giorni, sin da quando le cornacchie in cielo avevano dato il segnale,  intessendo voli  sulla linea di sud ovest.  L’annuncio del suo arrivo era stato letto dai druidi di Bar Ailt nelle stelle e in certi segni che la sapienza antica aveva tramandato oralmente, sin dai tempi in cui la Dea Madre era venerata e rispettata con i suoi figli: quelli nascosti nelle sue viscere, quelli radicati nella sua carne e quelli affaccendati sulla sua superficie, nelle sue acque o nel cielo.

Le segnalazioni dei fuochi, che trasmettevano la notizia da triangolo a triangolo, sulla rete che congiungeva ai luoghi sacri, avevano confermato la notizia: Gwydd era in viaggio.

Le sacerdotesse avevano digiunato e scrutato nelle polle  d’acqua limpida, alimentata dalla fonte sacra, per seguirne i passi mentre, partito da terre lontane, in prossimità di un mare sconosciuto, attraversava monti e pianure, guadava fiumi, per portare a Bar Ailt la sapienza antica che avrebbe dato avvio ad una nuova stagione di prosperità. 

Quando il carro cigolante, trainato da una pariglia di buoni bianchi, si fermò all’imbocco della strada che univa il fondovalle con i Campi Alti di Bar Ailt, i  druidi si fecero incontro reverenti a Gwydd e lo aiutarono a scendere.

Da quel punto, sino alla sua dimora nell’area sacra del cerchio di forza, Gwydd avrebbe percorso il lungo tragitto a piedi, aprendo una lunga processione alla quale avrebbero partecipato i druidi dei territori vicini, dove la notizia dell’avvenimento era passata di bocca in bocca.

L’uomo venuto dal Nord, Gwydd il Bardo, l’incarnazione del Merlino, al druida di Bar Ailt che gli pose il braccio apparve ancora più vecchio di quanto la sua ormai leggendaria fama lo avesse mai dipinto.

Lunghi capelli bianchi gli scendevano sulle spalle,  incurvate dagli anni e dal peso delle responsabilità.

Una fascia bianca, orlata con due righe rosse, gli cingeva la fronte, ricadendo sulla spalla destra e dividendosi alla fine, all’altezza della vita, in due lingue di fuoco. Gli occhi infossati gli brillavano di una luce intensa, arcana, remota, proveniente dalle profondità di quel cielo che per tanti anni avevano scrutato e interrogato. Una lunga clamide bianca ricopriva il resto del corpo.

I piedi scalzi cercarono lentamente il terreno accidentato. Gwydd afferrò con la mano destra il braccio del druida e con la sinistra si appoggiò ad un lungo bastone di quercia, che gli arrivava all’altezza del capo, sottile all’estremità inferiore e che si ingrossava progressivamente verso l’alto, fino ad assumere l’aspetto di uno scettro nodoso.

Il vecchio druida del Nord cercò l’equilibrio nella nuova posizione verticale, sentì il contatto con la Madre Terra e la sua forza salirgli lungo le gambe rinsecchite, entrargli nelle ossa, ridargli vigore.

Gli occhi scrutarono il cielo, si posarono sugli alberi fioriti, sull’erba verde punteggiata dal delicato colore rosato dei crocus, sugli armenti che pascolavano nei prati, con gli agnelli che saltellavano rincorrendosi nei loro giochi infantili, interrotti solo da rapide poppate.

Erano passate molte lune da quando aveva lasciato le spiagge spumose del Nord, le acque lente, verdi e profonde dei fiumi della sua terra, i boschi fitti nei quali aveva trascorso la sua infanzia e aveva appreso i segreti dell’antica sapienza, tramandata dalla notte dei tempi di bocca in bocca, per mantenerla pura e viva.

La sua mente scivolò nel ricordo della primavera precedente.

***

Il mare era calmo. Il mattino aveva piovuto e le ultime nubi correvano verso oriente, per incontrare immense distese d’erba e impenetrabili foreste di querce, dove il respiro della terra si congiungeva a quello del cielo.

Il promontorio, piatto ed erboso, degradava lentamente verso il mare, separando l’oceano aperto dalla baia, sulla quale, più a sud, in basso, si affacciava il villaggio, al momento deserto.

A nord-ovest il volo dei gabbiani intesseva intrecci tra l’oceano, il cielo e la terra.

A sud-est il mare era tranquillo, blu intenso, scintillante per i raggi del sole che lo colpivano di traverso.

Una grande roccia segnava la punta più avanzata del promontorio. Nell’acqua, a breve distanza l’uno dall’altro, alti scogli grigi si ergevano come alberi di pietra, perfettamente allineati.

A poche centinaia di metri  dalla riva, verso ovest, un bosco fitto  celava alla vista i preparativi del sacrificio. Un toro bianco, le cui corna non erano mai state legate, brucava l’erba ancora bagnata, ignaro della sua sorte. Se ne sentiva di tanto in tanto il muggito: quasi un richiamo alle incombenze del rito, per chi si affaccendava sulla riva.

Il rito di maggio, Aldebaran, le stelle.

Nella sua mente cominciarono a scorrere le immagini di un cielo infuocato, solcato da dense nuvole di fumo nero. Un mondo intero bruciava.

Ebbe l’impressione che un cilindro incandescente calasse su di lui dall’alto, incombente, terrificante. Lo sentiva sopra di sè, come un mostro di ferro e di fuoco. Lo inghiottiva. Lo portava via. Lo strappava a quel mondo agonizzante.

L’immagine cambiò all’improvviso. Ora lui planava su un’immensa foresta verde. Scendeva dolcemente, sempre più in basso, fino a terra. Terra. Si posava dolcemente. Galleggiava sull’acqua. Vedeva la riva coperta d’erba. Si fermava all’ombra di un tarassaco in fiore.

L’immagine lo seguiva sin dalla sua infanzia, quando era stato raccolto, così gli avevano detto, dalle acque di un fiume da una giovane sacerdotessa dedita alla ricerca di erbe medicinali, che viveva in solitudine in una casupola di pietra e di tronchi, nella quale il fuoco era sempre vivo e alimentava la produzione di elisir usati nelle aree sacre per guarire gli ammalati che ad esse si recavano sempre più numerosi, attratti dalla fama delle seguaci del culto della Dea.

A lei, che lo aveva trovato e che considerava sua madre, aveva chiesto mille volte: “Da dove vengo?”, ma la risposta era sempre stata la stessa: “Non lo so, Cuore, la tua nascita è un mistero”.

La sacerdotessa era morta giovane. Gwydd era ancora nell’età dei giochi quando lei se ne era andata nel Mondo dei Vivi. Gwydd aveva smesso di rincorrere i leprotti nella radura e di fare il verso alle rane che stazionavano, tronfie, sulle larghe foglie galleggianti negli anfratti dell’ansa del fiume. Un uomo vecchio come ora lo era lui, vestito di bianco come lui, con le stesse spalle curve e una fascia bianca sulla testa, era venuto nella casupola di tronchi e di sassi.  Gwydd aveva raccolto  le sue poche cose e una piccola falce di luna di metallo lucente, che era sempre stata appesa al collo di quella che per lui era stata sua madre. Il vecchio, appoggiandosi ad un lungo bastone che portava serrato nella mano sinistra, lo aveva condotto con sè nel fitto del bosco, mentre mille occhi invisibili ne accompagnavano il cammino e due cornacchie, lanciandosi richiami, volteggiavano nel cielo.

Nel bosco  aveva seguito le lezioni della vita e della sapienza, era cresciuto ed aveva iniziato la sua lunga strada. Giunto al quarto grande anno del suo cammino nel mondo, Gwydd si sentiva stanco. Aveva guardato verso la volta stellata, ancora visibile prima che il sole rischiarasse il nuovo giorno di Beltane e dal suo cuore era sorta un’invocazione: “Fratelli, ho fatto quel che dovevo; ho a lungo camminato sui sentieri impervi della vita. È ora di tornare. Aprite di nuovo le porte del cielo “.

Non aveva ottenuto risposta. Aveva ancora qualcosa da fare e ancora alcune lune da vivere.

***

L’immagine svanì lentamente dagli occhi della mente del vecchio druida. Davanti a sé aveva ancora un sentiero impervio, che stava accingendosi a percorrere, appoggiandosi al braccio vigoroso del druida di Bar Ailt.

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