Lo scrittoio di Guido Gozzano

febbraio 25, 2018 in Album fotografici, Letteratura, Recensioni da Pino Mongiello

Guido GozzanoPassando per Aglié, non si può non far visita al Meleto, la casa di famiglia abitata da Guido Gozzano agli inizi del Novecento,  dove è ancora possibile cogliere l’eco delle sue poesie.  Nelle stanze, oltre gli arredi, i ninnoli, le collezioni di farfalle, le foto di lui, della mamma, di Amalia Guglielminetti, della bella Otero, si possono vedere anche altre cose curiose: il pappagallo impagliato, il modellino in avorio di una pagoda, il beauty personale del poeta. Non mi è dato sapere se nella villa vi sia una biblioteca che conservi qualche suo manoscritto. Basta, però, portare con sé una raccolta delle sue poesie, sfogliarne le pagine, attraversare il giardino e incamminarsi verso il frutteto fino al cancello che chiude il recinto. Qui, con un po’ d’immaginazione, può accadere di incontrare l’ombra di Cocotte, il delicato e malinconico personaggio di una poesia indimenticabile, ben consci che si tratti di un contesto diverso da quello ligure dei soggiorni infantili del poeta.

Lo scrittoio di Guido GozzanoOra, è proprio da Cocotte che il saggio di Luciano Bossina, Lo scrittoio di Guido Gozzano, Olschki, Firenze, 2017, prende le mosse con l’obiettivo di “documentare il profitto di una lettura greca e latina della sua poesia”. Bossina è professore di Filologia classica presso l’Università di Padova ma questo non gli  impedisce di incamminarsi con scioltezza anche nei sentieri della lirica contemporanea. In questo caso, come sappiamo, l’autore in questione è Gozzano, poeta al quale il professore ammette di dovere “fraterna benevolenza”. Peraltro già il sottotitolo del libro “Da Omero a Nietzsche” fa intuire quale importanza ebbero per il poeta gli antichi. Il ricco lavoro di Bossina aiuta dunque a comprendere la complessa officina gozzaniana mentre rimette ordine, per così dire, tra le carte dello scrittoio del poeta con dovizia d’informazioni. Il pregio di questo libro sta nel rigore scientifico che lo sottende e nel carattere affabulatorio che lo struttura.

È una vera gioia della mente seguire l’itinerario che il filologo effettua alla ricerca delle fonti che hanno ispirato il poeta. Non c’è puntiglio né pedanteria in tutto questo, ci sono solo curiosità e scavo, come accade nelle pagine di un giallo che ci conducono gradualmente alla scoperta del “colpevole”. Il risultato è davvero sorprendente. Si pensi, per esempio, al titolo della poesia Cocotte: la «strana voce» da cui è scaturita la «fata» con «bevande affatturate». Da κυκεω: cocotte. Nomen omen: Cocotte è una «fata» che ha nel nome il «succo d’erba». A questa spiegazione il lettore giunge solo dopo un lungo percorso  che lo ha portato a scoprire ogni possibile traccia interpretativa dell’intera poesia, allo stato nascente e nei successivi ripensamenti. Nello specifico, ecco i versi gozzaniani: Pensavo deità favoleggiate:/ i naviganti e l’Isole Felici…/ Co-co-tte … le fate intese a malefici/ con cibi e con bevande affatturate …  Un richiamo al viaggio e alle isole sconosciute si ritrova anche nella Signorina Felicita, dove si parla di isolette strane,/ ricche in essenze, in datteri, in banane,/ perdute nell’Atlantico selvaggio/.

Viene spontaneo associare il tutto al mitico peregrinare dell’omerico Odisseo, al suo soggiorno presso la fattucchiera Circe, al suo avvicinarsi alla fatale isola descritta dallo stesso Dante. Le argomentazioni che Bossina porta a sostegno della sua lettura sono non solo convincenti ma anche difficilmente contestabili perché corroborate dai necessari sostegni critico-comparativi. A tali conclusioni non se l’era sentita di giungere, invece, quarant’anni prima, Giorgio Barberi Squarotti quando, spiegando la stessa poesia, annotava: si può pensare ad associazioni con Circe, con Calipso, dopo l’accenno ai «naviganti» (Ulisse?) e ai «malefici» compiuti con cibi e con bevande in cui sono state poste sostanze magiche («affatturate»). Ma è più probabile che si tratti di confuse impressioni fiabesche, non identificabili.

Bisognerebbe ripercorrere il libro di Bossina capitolo per capitolo per cogliere quanto influì su Gozzano  il contesto culturale torinese del suo tempo, quali letture e quali frequentazioni il poeta di Aglié coltivò con interesse ed anche con disincanto. Andrebbero rilette le pagine contenenti appunti e citazioni che il poeta annotava e raccoglieva in appositi quaderni , come materiale da utilizzare poi per la sua fase creativa. Verificheremmo allora quanto Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, ma anche Carducci, Pascoli, D’Annunzio, e i poeti parnassiani e altri scrittori francesi, oltre i classici, abbiano fatto parte a pieno titolo della sua “officina”. “Ho  molto letto e mi sono appassionato per tutti i poeti che cantarono la voluttà e la vita”, aveva scritto nel 1903 all’amico Fausto Graziani. Gozzano che, come lui stesso pure riconosceva, non era stato uno studente liceale modello, aveva però imparato ad attingere con abilità alle fonti che più lo attraevano: magari non erano sorgenti primarie ma mediate e riassunte in opere di sintesi. Ma la poesia non è ricalco di un pensiero o di un’idea; è qualcosa di più, è ricreazione e ripensamento personale capace di produrre emozione.

Quanto detto vale anche per l’altro autore menzionato nel sottotitolo del saggio in questione: Nietzsche. A questo proposito, Bossina può affermare “che il ruolo di Nietzsche sulla maturazione del pensiero di Gozzano è stato rilevante”. Tuttavia, se le tracce di quella filosofia nelle rime del poeta sono davvero scoperte, non vuol dire che l’adesione del poeta a Nietzsche sia totale. Per cogliere ciò basterebbe citare la rima “camicie-Nietzsche” presente ne La Signorina Felicita, o il racconto I benefizi di Zaratustra, del 1905. “La grande differenza rispetto a Zarathustra – chiarisce Bossina –  è che Gozzano non crede al Superuomo. O almeno non crede di poterlo incarnare…”.

Giunti alla fine del libro, si ha la sensazione di aver percorso un itinerario nuovo rispetto a quanto ci era stato prospettato finora su Gozzano. Il merito va al lavoro puntuale e leggero di un saggista che ha saputo coniugare poesia e filologia.

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