Profumo di Persia in una nuova grande poeta

maggio 21, 2023 in Persia da Mario Baldoli

Simin Behbahani

Simin Behbahani

Con emozione mi trovo sul tavolo l’opera delle due maggiori poetesse persiane del Novecento: Forugh Farrokhzad e Simin Behbahani.

A mio parere due poetesse ben più ricche e profonde dei nostri due Nobel Montale e Quasimodo (Simin fu anche proposta due volte per il Nobel). Del resto, su come si prende un Nobel, v. Enrico Tiozzo, La letteratura italiana e il premio Nobel. Storia, critica e documenti, Olschki 2009.

Di Forugh abbiamo scritto il 30-12-2022 sotto il titolo Donna vita libertà riportando molte sue poesie. Su Simin è stato pubblicata nel gennaio 2023 la prima monografia italiana di Nahid Norozi, docente di Lingua e Letteratura persiana all’Università di Bologna, intitolata La mia spada è la poesia. Versi di lotta e d’amore nell’opera di Simin Behbahani, ed. WriteUp Books, (Ferdows. Collana di studi iranici e islamici). Il volume comprende una vasta antologia commentata di circa 80 poesie di Simin con i testi originali persiani in appendice, una ventina dei quali ascoltabili tramite l’applicazione QR.

 

Forugh Farrokhzad

Forugh Farrokhzad

Il nostro interesse per l’Iran è nato con la lunga rivolta delle sue donne (seguita da quella degli uomini) suscitata dall’uccisione della ventiduenne Masha Amini colpevole di non portare correttamente il velo, rivolta presto estesasi contro il governo degli ayatollah. Rivolta che non è finita, malgrado la dura repressione, ma che si sta riorganizzando.

Due poetesse la cui vita fu molto diversa, ma fu più vicina la loro poesia anche perché si conobbero e frequentarono. Forugh visse 33 anni, dal 1934 al 1967, quindi sotto la monarchia dei Pahlavi. Simin ne visse 87 (1927-2014), conobbe oltre ai due sovrani Pahlavi, la rivoluzione islamica del 1979, la guerra Iran-Irak (1980-1988) la più sanguinosa dalla fine della II Guerra mondiale, la repressione e la censura degli Ayatollah.

Forugh veniva da una famiglia borghese, il padre era colonnello e, come tale, piuttosto autoritario. Simin da una famiglia di intellettuali di idee progressiste, la madre funzionaria del ministero della cultura, traduceva dal francese, poeta, scriveva racconti, conosceva la musica, il padre scrittore e giornalista.

Le prime raccolte poetiche di Simin, simpatizzante del Tudeh (“Popolo”, il partito comunista) sono di impegno sociale, spesso di tono drammatico e tragico. Affronta il problema della poligamia, del divorzio, della prostituzione (anche maschile), della concupiscenza degli uomini interessati solo al sesso, della disparità dei diritti, di cui è vittima anche la donna ricca, la donna come oggetto. La sua poesia è di tipo narrativo:

 

(…) Lui mi bevve, senza esitare, ed io

Mi fusi col calore di bocca e gola di lui

Divenni ebbrezza affiorando dal suo corpo e anima

Il suo viso si infiammò come fuoco vivo (…)

Poi gettò in un angolo il mio calice vuoto del vino

Dopo di che tra gli sghignazzi ad alta voce disse:

Benché la mia bocca assetata non avesse assaggiato

Un altro vino più squisito di questo tuo, tuttavia

Prima che giunga la pesantezza della sbornia

Occorre un altro vino, occorre un’altra coppa.

 

Ma Simin conosce anche la vendetta:

O Signore, dammi un amante perché possa farlo soffrire

Che possa esiliarlo, torturarlo, avvilirlo, farlo piangere (…)

E possa legare a un ceppo i suoi piedi e dire: “io sono la tua padrona!”

E come uno schiavo per la brama di oro, lo possa rendere merce da vendere al mercato.

 

Altri temi affrontati sono: l’ingiustizia, la povertà e la degradazione che si porta dietro, la morte in miniera, il ladruncolo in carcere, l’umiliazione del povero, della mendicante. Nei suoi racconti-poesia Simin mostra anche il macabro, il lugubre, per esempio, in una poesia in cui un uomo disseppellisce un morto per togliergli il dente d’oro. Temi affrontati nella prosa e nel cinema, ma raramente in poesia.

Struggenti le poesie sulla “zingara”. La zingara è l’emarginata, il simbolo del diverso, la donna ribelle senza fissa dimora, seducente, di indomito carattere, la zingara canta e balla per conoscere meglio se stessa, spezza i confini, ha uno slancio incontenibile. Zingara è Simin, vogliosa di altri mondi. L’anafora: “O zingara” trascina nel magico a volte violento:

O Zingara, non hai un’erba che possa liberarmi dal dolore amoroso?

Di erbe fanno medicine, le zingare, per procurare sollievo

O Zingara non hai una forma di preghiera che sciolga gli incantesimi?

(Mi diceva la balia): le zingare hanno amuleti che sciolgono tutti i nodi

O Zingara, chiedigli se nel suo petto gentile

Per me un barlume d’amore, per quanto piccolo, c’è o non c’è (…)

O Zingara, ho il cuore estirpato, portami con te, via da questo paese

Se nella vostra comitiva c’è posto anche per degli stranieri

La mia delicata poesia è fine come le ciglia delle serpi, o Zingara!

Oh, sì, io sono quella zingara, qui tranne me non c’è nessun altro (…).

 

Come Simin, anche la zingara soffre il dolore di tante donne:

Se n’è andato quel cavaliere, o Zingara e non ti ha portato con sé (…)

Se ne andava lui, e la polvere della sua strada era oscurata dagli umidi sospiri (…)

Quel cavaliere se n’era andato senza portare con sé un solo filo dei tuoi capelli.

 

La zingara è anche quella con le gonne “dalle mille pieghe”, che esausta, assetata per il lungo vagabondare, allunga una mano in un giardino per cogliere una mela, ma “la Legge allora srotolò un papiro, leggendole il Decreto”: una mannaia “le taglia via una mano da cui il sangue prese a gocciolare”.

In Simin i termini della poesia classica persiana: il cipresso, il giardino, la rosa e l’usignolo, il coppiere, il vino (che annega il dolore e non è più ebbrezza verso Dio) perdono il loro significato simbolico; così come il verso libero usato decenni prima da Nima, è piegato da lei al ritmo e alla necessità espressiva.

Come usa in Persia da secoli, come aveva scritto l’amica-rivale Forugh, anche la poesia erotica gode in Simin di un certo spazio:

 

Dentro di me dorme un’altra, quell’altra conoscila!

Aprimi come un cedro e scopri la fata che c’è dentro

Sono, sì, una fata rinchiusa in un cedro come in un incantesimo,

perché tu possa liberarmi, impara l’arte dell’incantamento!

Vieni alla mia dimora e portati via il mio animo, il mio cuore!

Sii come l’uomo della carovana e sappi guidare! (…)

 

In altra poesia ritorna il suo senso di superiorità sull’uomo:

Se vuoi baci da me, vieni! Non uno prendine, ma cento, e vattene!

Vieni da me, o corpo senz’anima e da qui poi, tutto risuscitato, vattene! (…)

Non chiedermi mai del mio segreto, in questo non essermi compagno!

Se vuoi la gentilezza da me, vieni stupito e stupito vattene! (…).

 

Simin ricicla una forma classica ossia il dialogo d’amore:

Dicesti: “Ora ti bacio”. Risposi: “Sì, ti prego!” (..)

Dicesti: “Dimmi cosa vedi nello specchio degli occhi miei?”

Risposi: “Ci vedo me stessa, tutta nuda e senza veli”.

Dicesti: “Per l’impazienza il cuore desidera saccheggiare”

Risposi: “Io con i saccheggiatori saprei pure adattarmi” (…)

Dicesti: “E se io mi liberassi il piede dalla catena del tuo amore?”

Risposi: “Sai bene che troverei un altro ancora più pazzo di te”.

 

In Simin l’amore non è solo rivolto all’amato, ma anche una conferma della propria autonomia.

Politicamente ella esprime il suo internazionalismo, ma a fianco di esso scrive della guerra con l’Iraq, del sacrificio del suo popolo con accenti patriottici, e ha la coscienza che il forte approfitta della bontà dell’internazionalista. Quindi c’è l’entusiasmo per le vittorie sull’Iraq, ma anche il dolore per i morti in guerra.

Infine Simin compone poesie contro la censura dei preti (l’ultimo suo libro è pubblicato a Los Angeles), per la voglia della bellezza, contro il velo:

 

L’amore in me è tutto in fiore, se vogliono lapidarmi

Ecco il mio corpo, forza, getta pure il tuo sasso, l’accoglierò nel mio fiore

Benché io sappia che la taglieranno oggi o domani

La mia chioma ad arco vuole lo stesso un pettinino di turchese.

 

Eccola poi davanti alla morte:

Per settant’anni sono rimasta in questa dimora perché non andasse perduta

Un metro e settanta centimetri misura la mia tomba nella mia patria: tanto io sono.

 

Ricorda Forugh di cui cita una delle due raccolte di versi:

Nel mezzo di vecchiaia e malattia la mia mano accarezza la criniera del cavallo

Ho voglia di andare all’assalto anche se forse un cavaliere mai sarò

Ho detto ciò che andava detto sia quel che sia, protesta o urla,

“E’ solo la voce che resta” perché qui per sempre io non sarò.

 

Come Forugh può dire:

Mi hai chiesto “Perché non ti uccidono?” Ti rispondo: “Perché

Chi di uccidere il mio corpo è capace, non lo è con la mia poesia.

 

Concludo col verso che dà il titolo al libro:

La mia spada alla parete appendere, no, non voglio

Al dolce sonno abbandonarmi se non nella tomba, io non voglio

La mia spada è questa stessa poesia, più efficace di qualsiasi spada.

 

di Mario Baldoli

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