Quando la politica infilza la cultura e si ritrova infilzata

marzo 21, 2024 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli

283f0aeb3159a88989496fe75f92a074_w200_h_mw_mh_cs_cx_cyA 140 anni dalla nascita della propria casa editrice Daniele Olschki ne richiama l’avventura ripercorrendone la vita in una breve densa memoria (p. 38) Gioverà ricordare, meminisse iuvabit, pubblicata dallo stesso Olschki, con prefazione di Liliana Segre che corregge il sottotitolo da “sarà utile ricordare” con un “ricordare è necessario, un dovere per ciascuno e per tutti, per i singoli cittadini e per le Istituzioni”.

L’attenzione di Daniele si appunta soprattutto sul fondatore Leo Samuele, poliglotta e bibliofilo che, proveniente dalla Prussia orientale, iniziò l’attività di editore, stampatore e antiquario a Venezia. Si trasferì pochi anni dopo a Firenze dove il rapporto con dei magnati americani fece decollare l’iniziativa e lo rese noto, tanto che un giovanissimo Vittore Branca lo ricordava come “il favoloso principe dei bibliofili, l’amico di imperatori e di re, dei Morgan e degli Action, di D’Annunzio e di Rilke”.

Con lo scoppio della Prima guerra mondiale iniziano però le difficoltà. Il nazionalismo italiano si abbatte sulla Germania, su di lui che da là proviene, sull’editrice attraverso i giornali: l’Olschki tedesco ed ebreo, la faccia sorridente e pingue dal naso aquilino. Date le evidenti minacce, Leo si sposta a Ginevra da dove continua, a dirigere l’editrice e dove apre una nuova sede, fermo nei suoi convincimenti sull’affermarsi finale di quella Humanitas cui sempre faceva riferimento e che, nella sua convinzione, avrebbe alfine vinto sulla brutalità della guerra.

Infatti, cessata la guerra, torna in Italia, dove tuttavia si è inaridito il mercato antiquario. Quindi riorganizza l’azienda puntando sulla produzione libraria. Con l’aiuto dei figli Cesare e Aldo apre una sede romana affiancata alla libreria di via Condotti.

Nascono nuove collane, la “Biblioteca dell’Archivium romanicum” e la “Biblioteca della bibliografia italiana”. Infine nel 1926 ottiene la cittadinanza italiana e viene nominato Grand’ufficiale “perché ha molto meritato nella cultura italiana”, scrive l’Ente nazionale di Cultura nel 1936 in occasione del cinquantenario della fondazione dell’editrice ”esprimendo la sua entusiastica adesione”. Il prestigio e l’alta specializzazione culturale ottengono quindi un riconoscimento di italianità dal regime fascista e fanno superare a Leo Samuele la censura che si era preannunciata già nel 1930 in un articolo che l’aveva definito con durezza editore tedesco polacco ebreo elvetizzato durante la guerra.Copertina Oschki 1

La situazione precipita quando nel 1938 il fascismo pubblica il manifesto sulla razza e pretende di conoscere anche l’appartenenza “presumibilmente” razziale di tutti i collaboratori della casa editrice la quale dovrà anche mutare nome assumendone uno ariano. In quei momenti difficili l’editrice Lattes aveva cambiato nome, e l’editore e amico Formiggini si era suicidato. Era in pericolo mezzo secolo di lavoro culturale di straordinario valore.

Malgrado l’energico intervento di Roberto Ridolfi che portò il Ministero della cultura popolare ad una prima concessione, nel febbraio del 1939 non c’è altro da fare: la legge stabiliva i limiti della proprietà immobiliare e delle attività industriali e commerciali degli italiani di razza ebraica. L’editrice veniva quindi disarticolata e Leo riprese la strada per la Svizzera. Il nome dell’editrice diventa Bibliopolis. I figli Aldo e Cesare salvano l’attività intestandola alle rispettive mogli ariane.

Dopo l’8 settembre la casa editrice riprende il suo nome, ma le mine tedesche e il passaggio del fronte portano alla distruzione del Ponte di Santa Trinita, della libreria sul Lungarno e della sede familiare del villino liberty. Solo la determinazione delle generazioni successive ha consentito e consente la continuazione di quella iniziativa del 1886, mantenendo il rigore e l’eleganza del fondatore.

Il piccolo libro di Daniele Olschki trova un ampio contesto (p.337) in Folklore, razza, fascismo, ed. Olschli scritto da nove autori e curato da Fabiana Dimpflmeier.

Folklore razza fascismoGli autori notano che il razzismo già presente prima della Grande guerra sulle basi del positivismo e dello storicismo idealistico, continuò fino agli anni Settanta quando cominciò un ripensamento critico che andò a scontrarsi con la rimozione negazionista secondo cui gli italiani non sono e non erano razzisti, erano “brava gente”.

Una precoce eccezione al negazionismo fu quella di Concetto Marchesi che sostenne che i biologi piegati al razzismo fascista erano da considerare corruttori della scienza e traditori.

Il fascismo imponendo il testo unico nelle scuole di città e altro testo nelle campagne prendeva anche una posizione di classe: Chi nasce di gallina conviene che razzoli e, possibilmente, che sia prolifico perché la patria ha bisogno di soldati.

Il culmine del razzismo fu raggiunto dal quindicinale “La difesa della razza” di Telesio Interlandi pubblicato dall’agosto 1938 al 1943.

Il 14 luglio del 1938 quando apparve il Manifesto della Razza, gli italiani furono sostanzialmente obbligati a dichiararsi “francamente razzisti” e ammettere che il fascismo era razzista dalle origini.

La strategia del regime era di celebrare il destino imperiale della stirpe italica (con richiamo a Giulio Cesare), mostrare l’inferiorità degli slavi e il pericolo costituito dagli ebrei, collegare il nazionalismo della Prima guerra mondiale al fascismo. Elementi che, uniti, spiegano l’esilio di tanti intellettuali. Anche il Centro studi Africa orientale italiana che condusse una missione di studio al lago Tana unì politica e scienza nel tentativo di costruire l’Impero. In realtà il lavoro, pur razzista, di antropologi e biologi interessava poco Mussolini. Il ras Roberto Farinacci l’aveva ben capito: “è un problema squisitamente politico”.

Ma gli studiosi amano le differenze, per cui i razzisti biologici si differenziavano dai razzisti spiritualisti che distinguevano “lo spirito” di una razza dall’altra, spirito che si trasmette col sangue e domina lo sviluppo delle civiltà”. Nel 1942 il Consiglio superiore per la demografia e la razza approva il secondo Manifesto fascista sulla razza italiana, in questo saggio riportato nelle bozze iniziali e nei suoi 24 articoli.

Benchè politicamente ininfluente, con un vagabondo procedere di flash storici che hanno inizio nell’era quaternaria e culminano nel genio di Mussolini, il Manifesto dedica agli ebrei il penultimo articolo “gruppo etnico estraneo tendenzialmente disgregatore” che “non ha nemmeno sfiorata l’unità biologica e spirituale della razza italiana”. Conclude con Cesare Augusto che “col suo ordinamento ha compiuto la sostanziale struttura dell’Italia moderna”. La superiore la razza ariana doveva dominare il mondo. Il disprezzo per i non ariani si tramutava in odio viscerale verso gli ebrei.

La riflessione umana e politica su quel razzismo sta anche nella domanda: che fecero quegli etno-bio-antropologi, finita e persa la guerra? Si riciclarono, alleggerirono gli estremi del loro pensiero, tennero le loro cattedre e i loro ruoli importanti, qualcuno finì nella Democrazia cristiana.

Questi studi aprono una porta sull’antropologia italiana da fine Ottocento ad oggi, un terreno ancora ampiamente da dissodare.

di Mario Baldoli

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