Utopia, un amore necessario e inaffidabile

dicembre 12, 2019 in Approfondimenti da Mario Baldoli

Thomas More (1527), Hans Holbein il giovane

Thomas More (1527), Hans Holbein il giovane

Utopia è una parola magica, universale, profondamente umana, ovunque diffusa.

Chi di noi non ha un’utopia? Chi non vorrebbe un mondo diverso?

Il nome Utopia fu coniato dal filosofo e uomo politico Thomas More, e mantiene quel fondo di ambiguità che ogni utopia si porta addosso fin da suo etimo: è greco? è latino?

I vari significati forse si possono mettere in sintesi: luogo felice (che non è) in alcun luogo.

Thomas More pubblicò il suo libro Utopia a Lovanio nel 1516. Enrico VIII gli tagliò la testa nella torre di Londra nel 1535 perché non appoggiava il suo arrogante divorzio da Caterina d’Aragona e di conseguenza il distacco dell’Inghilterra dalla chiesa cattolica.

Tuttavia molto di nuovo – rispetto alla bella edizione curata da Luigi Firpo nel 1979 – scaturisce dagli Atti di un congresso ora pubblicati a cura di Francesco Ghia e Fabrizio Meroi, Thomas More e la sua Utopia. Studi e prospettive, ed. Olschki, congresso tenuto a Trento a 500 anni dalla pubblicazione di quell’Utopia considerata con il Principe di Machiavelli l’opera che apre il tempo moderno.

Il congresso solleva molti problemi, in parte concentrati su More, la sua sensibilità e cultura, in parte verso l’esterno: gli amici e altri filosofi coevi.

In More c’è non solo la richiesta di tolleranza (il Cinquecento fu un secolo di guerre di religione), ma anche la forte sensazione che il mondo stia cambiando in peggio, che l’Inghilterra corra verso un ingiusto profitto dei potenti ai danni del popolo. In effetti stava per cominciare la cancellazione dei fondi comuni e indivisi, presto cintati e riempiti di pecore per filare il nuovo capitalismo.

 

 Raffigurazione popolare dell'Utopia

Raffigurazione popolare dell’Utopia

Come ogni realtà importante, Utopia ha molti padri. Il primo è Platone che nella sua Repubblica rovescia scandalosamente il mondo: uguaglianza tra donne e uomini, abolizione della famiglia e della proprietà, governo dei filosofi. Per lui è la perfetta città già esistente in cielo, mentre è il solito castello in aria per Aristotele.

Si affiancano altri padri: Luciano di Samosata (II sec. a.C.) che More tradusse con l’amico Erasmo: in particolare è qui importante il dialogo in cui Menippo viaggia agli Inferi, svergognando alcuni dannati che erano illustri sulla terra (facile comprendere l’allusione). Nella grande tradizione medioevale, More, da cristiano, sente soprattutto il fascino de La Città di Dio di Agostino, come se Utopia dovesse diventare tale, in più segue Tommaso nella critica alla superbia.

Per More lo stato di Utopia ha poche leggi chiare, nessun avvocato, mitezza (ma non in tutti i casi) del diritto, assistenza sanitaria, sei ore di lavoro al giorno, libertà di culto, un cristianesimo senza dogmi: quindi un teismo fondato su basi puramente razionali, una religione volta alla natura, al vivere attivo, al godimento.

Machiavelli e More assistono al frantumarsi di una virtù costruita sul diritto naturale: il segretario fiorentino è concentrato sul potere politico e il dominio; l’inglese sulle funzioni sociali ed economiche dello Stato, ambedue antesignani di una nuova interpretazione della società in cui scompare l’idea umanistica di una pax filosofica.

Il Cinquecento è il secolo che rovescia il mondo: nel 1455 Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili; nel 1492 Colombo scopre l’America e nel suo quarto e ultimo viaggio (1502) approda nell’America Centrale; nel 1513 è pubblicato Il principe di Machiavelli; nel 1517 prende il via la riforma protestante; nel 1519-22 Magellano compie il primo giro del mondo mostrandone così indiscutibilmente la forma; nel 1527 i Lanzichenecchi saccheggiano Roma; dal 1545 al 1563 si compie il Concilio di Trento; nel 1555 la precaria Pace di Augusta; nel 1558 muore Carlo V: una vita passata a combattere senza risolvere alcun problema, segnata dalla distruzione degli indios dell’America latina, contraddistinta dalle guerre con la Francia e gli Ottomani di Solidano il Magnifico, col salvataggio di Vienna e la perdita di Budapest; nel 1571 la battaglia di Lepanto; finalmente nel 1598 l’editto di Nantes riconosce la libertà di religione in Francia.

Il contesto era il più tragicamente adatto a partorire l’isola di Utopia (un’isola – come l’Inghilterra – distante dagli usi perversi del mondo), una società apparentemente ideale, ma anche, scaturisce dagli Atti del congresso, noiosa e ipocrita che prepara il dominio e la colonizzazione inglese, giustificato dalla superiorità morale dei suoi abitanti: quindi un mondo parzialmente in contraddizione con gli intenti dell’autore.

Ma se l’interpretazione di Utopia fosse completamente diversa?

Se Utopia fosse un racconto ironico, un’isola con tratti buffoneschi?

Nel 1532 Rabelais pubblica Pantagruel, una sorte di folle e vigoroso prolungamento di Utopia. In esso la denuncia dell’epoca si confonde con le gesta di un gigante che trasforma l’esistenza in un fenomeno e l’apparizione in apparenza disegnando un umanesimo cosmico. Quando in Gargantua (1534) appare un’isola simile a Utopia, essa è frutto di un dono, non ha mura, non ha ore, ha per regola la non castità.

In quel tragico Cinquecento non bastava suggerire un ideale, solo la strategia del paradosso poteva moltiplicare l’utopia in uno spazio infinito: Bevitori illustrissimi, e voi, Impestati pregiatissimi (perché a voi, non ad altri sono dedicati i miei scritti), Alcibiade in quel dialogo con Platonecosì Rabelais squarcia il sipario delle convenzioni.

Imprevisto nel convegno è un paragone con Giordano Bruno, il filosofo ucciso come More per ragioni religiose. Essi condividono l’idea di tolleranza, la denuncia delle guerre di religione, le conversioni forzate. Ambedue vogliono una religione che abbia una dimensione civile, portatrice di valori.

Utopia turba anche le utopie moderne, attraverso Marx, Cassirer, Croce, Kautsky.

Utopia (Radiotelevisione svizzera)

Utopia (Radiotelevisione svizzera)

More è ripreso pedissequamente da Marx quando traccia le origini dell’accumulazione capitalistica in Inghilterra. Popper ne è aspramente critico: l’utopia genera violenza, ed è tipico delle società totalitarie. Diversamente da lui Kautsky legge More come il primo che ha capito che l’economia non riguarda solo i beni di consumo, ma anche i mezzi di produzione, ha riconosciuto che l’uomo è il prodotto storico della società, dunque More sarebbe l’antecedente del socialismo moderno.

Ora sappiamo che l’Utopia di More non libera dalla contraddizione: non esiste realizzata anche se nasce dall’insoddisfazione sociale e dal nostro più profondo bisogno.

Il XX secolo ha cercato di scioglierne le tensioni con un dover essere, col recupero di tendenze messianiche che hanno dato esiti totalitari, realtà crudeli, illusioni che fosse a portata di mano un paradiso a prezzo ridotto. Ciò mostra i riflessi di quest’opera potente sul presente e il futuro, un vaso di Pandora sul cui fondo resta la speranza, quella che Albert Camus chiamava: rassegnazione.

Ma il suo fascino rimane: possiamo credere in un ideale che mantiene vivo l’impegno morale, la cura, l’attenzione critica, la carica polemica come stimolo al pensare del nostro tempo, ad affrontarne le crisi. Ciò richiede un’ironia maieutica, un pensiero critico e sognatore, che sappia demolire e costruire. Abbiamo sempre le nostre utopie.

Hanno contribuito al convegno, oltre ai curatori, Gregorio Piaia, Fulvia de Luise, Mauro Nobile, Bruno Pinchard, Celada Ballanti, Carlo Altini, Guido Boffi, Paolo Vanini, Marco Moschini.

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