W la libertà, il film che il PD (non) dovrebbe vedere

maggio 18, 2013 in Cinema da Elisa Masneri

W la libertà, film di Roberto Andò tratto dal suo romanzo Il trono vuoto, vincitore del premio Campiello nel 2012, ha per protagonista Enrico Olivieri (Toni Servillo), leader del maggior partito di centrosinistra: sposato con una donna impegnata e distante (Michela Cescon), vive in simbiosi con il suo braccio destro Andrea Bottini (Valerio Mastandrea).

Nel bel mezzo del caos della campagna elettorale, la più importante, perché la vittoria sembra finalmente certa, i sondaggi segnalano un calo dei consensi, le contestazioni aumentano e lo stanco politico, che somiglia più ad un grigio burocrate snervato dal lavoro monotono che all’uomo del cambiamento degli slogan elettorali, scappa. Olivieri si rifugia a Parigi da una vecchia fiamma (Valeria Bruni Tedeschi), mentre a Roma il fido Bottini cerca inutilmente di rintracciarlo, dopo aver comunicato alla stampa che il candidato premier ha avuto un malore improvviso. I giorni passano, la campagna elettorale incalza e la moglie di Olivieri pensa di chiedere aiuto al fratello gemello di Enrico (interpretato dallo stesso Servillo), un geniale filosofo appena dimesso dal manicomio: in realtà i due non sono più in contatto da anni, ma l’impressionante somiglianza di Giovanni con il fratello fuggiasco colpisce Bottini, che progetta il più classico degli inganni e lo convince ad indossare i panni del candidato premier. L’azzardo si rivela da subito un successo: il nuovo Olivieri piace alla stampa, abituata alle frasi fatte e al politichese, per la sua originale istintività; conquista i colleghi del partito, meschini e arrivisti, trascinandoli in un crescendo di passione per la causa e di citazioni colte; soprattutto, incanta gli elettori, che si fidano volentieri di un uomo che recita a memoria la poesia A chi esita di Brecht. Il vero Olivieri, nel frattempo, in Francia riscopre l’amore per il cinema, sua passione della gioventù, gode pensando di aver mandato in crisi i suoi colleghi a Roma e inizia a far tornare un po’ di colore nella sua vita. Il finale si pone nella tipica tradizione della commedia degli equivoci.

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Mentre si è in sala, si ha l’impressione di partecipare ad un piccolo miracolo: un film che racconta l’Italia attualissima con occhi lucido e sembra lanciare un messaggio che la classe dirigente dovrebbe ascoltare e accogliere il prima possibile. In realtà, l’Italia raccontata da Andò è sicuramente basata su quella reale, ma non è un fedele specchio dei tempi odierni. Viene difficile credere che in un’Italia come quella di oggi le parole altissime e colte, ma astratte, del politico Ernani, riescano a convincere gli esodati e i disoccupati che chiedono risposte concrete e rapide alla crisi. Eppure il regista ci ricorda, al di là del buonismo populista, che gli italiani hanno troppo spesso dimostrato grande propensione a dimenticare e a fidarsi di un capo carismatico, con il quale si illudono di avere un rapporto diretto: la follia “buona” di Giovanni è la libertà di dire le cose che tutti pensano, senza la diplomazia delle “versioni ufficiali” di partito da rispettare. Tra alcuni velati riferimenti alla demagogia di Beppe Grillo e la tentazione di classificare il filosofo neopolitico come un “Berlusconi di sinistra”, il film sembra quasi suggerire al PD, partito mai nominato ma chiaramente evocato, che per finalmente vincere davvero le elezioni, servirebbe un cambiamento radicale: in opposizione alla vecchia politica del compromesso e del calcolo, il film elogia il linguaggio poetico della passione e dell’emotività, auspicando il ritorno, nella corsa elettorale, alla buona retorica.

Alla piattezza verbale del “politichese”, il regista contrappone un calderone di citazioni letterarie, filosofiche e cinematografiche che soddisfano tutti i gusti, partendo dal classico gioco dei doppi (con uno sguardo alla psicanalisi e uno a Pirandello), passando per Verdi (Ernani, cognome d’arte del fratello filosofo, è un omaggio all’omonima opera di Verdi tratta dal dramma di Victor Hugo), fino ad arrivare a Fellini, di cui viene mostrato uno sfogo contro le pubblicità durante i film trasmessi in tv, che in realtà ha ben poco a che fare con il resto della storia narrata. Il tema del divario tra realtà e finzione nella vita di un personaggio pubblico viene declinato con un costante, ma forse incoerente, parallelismo con il cinema: La politica e il cinema non sono così lontani, il genio e il bluff coesistono sostiene il marito, regista cinematografico, dell’ex fiamma di Enrico.

L’indubbio punto di forza della pellicola è il cast: Valerio Mastandrea riesce perfettamente nel ruolo del funzionario di partito combattuto tra il senso del dovere e la paura di sbagliare tutto; Toni Servillo si riconferma uno dei migliori attori italiani, dividendosi divinamente tra i due gemelli senza mai cadere in nessun cliché.

 Il messaggio del film è suggestivo, ma inconcludente per chi pensa di applicarlo pedissequamente alla realtà: sarebbe sbagliato “usare” un film per scrivere un programma politico, ma ciò che senza dubbio funziona nella pellicola di Andò è la lettura, a tratti onirica, della realtà sociale e culturale italiana.

Nella testa degli spettatori che lasciano la sala rimangono due battute, che condensano una parte del messaggio lanciato dal film: una constatazione amara ma realistica (Lo sai com’è fatto questo paese: alla gente piace anche la merda, ma non per questo bisogna dargliela) e la speranza di cambiamento possibile che, tutto sommato, il regista cerca di stimolare (L’unica alleanza possibile è quella con la coscienza delle persone).

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