Gli spettri rubano i miei baci. Per la prima volta in italiano le lettere di Kafka a Milena Jesenskà

maggio 25, 2021 in Recensioni da Mario Baldoli

Kafka copertina 1Nel 1947, due uomini Ernst Pollak e Willy Haas si incontrano a Londra. Sono testimoni e naufraghi di quella stagione che ha distrutto il loro mondo ebraico, e stravolto il volto dell’Europa.

Hanno in mano un lascito luminoso e drammatico, le lettere che Franz Kafka ha scritto a Milena Jesenskà dal marzo al dicembre 1920, con qualche ripresa successiva prima della morte nel 1924.

Sono 135 lettere di Kafka che Milena aveva lasciato ad Haas nel 1939 e che, fortunosamente sfuggite ai controlli nazisti, arrivarono a Londra per corriere diplomatico cecoslovacco, inviate forse da un’amica di Milena.

Haas, rimasto solo, le pubblicò nel 1952, ma fu costretto dall’editore a togliere alcune parti riguardanti l’ebraismo e persone ancora viventi. Furono ripubblicate per intero nel 2013 e ora sono presentate per la prima volta in italiano, con traduzione di Isabella Bellingacci: Lettere a Milena, a cura di Guido Massimo e Claudia Sonino, ed. Giuntina.

Milena Jesenkà

Milena Jesenkà

Fra le donne che furono vicino a Kafka, le fidanzate ebree Felice Bauer , con cui ebbe un difficile rapporto per cinque anni, con fidanzamento, scioglimento, ripresa del fidanzamento e nuova rottura; poi Julie Wohryzek. E’ dominante il terzo rapporto, quello con Milena Jesenskà, perché Milena, cristiana, sensibile, colta e intelligente, fu l’unica a capirlo realmente e ad avere con lui un rapporto sullo stesso piano culturale così da entrare nella sua personalità.

Nel giugno 1919 Milena Jesenskà che vive a Vienna chiede a Kafka l’autorizzazione a tradurre in ceco alcuni suoi racconti. Si incontrano a Praga. Inizia una fitta corrispondenza: lei gli scrive del suo disastroso matrimonio, lui delle sue condizioni di salute, ha una malattia polmonare per cui ha lasciato il lavoro e ora è in cura a Merano.

In quei giorni il giornale cattolico di Merano pubblica stralci dei Protocolli dei savi di Sion, “insulsi e spaventosi” commenta Kafka, mentre nell’Europa dell’est la ripresa antiebraica distrugge negozi di ebrei e i rotoli della Torà.

In maggio l’editore Kurt Wolf pubblica il suo libro di racconti Un medico di campagna, e Milena sulla rivista culturale Kmen il racconto tradotto in ceco Il fuochista.

La malattia di Kafka rimane stazionaria, le cure di Merano non sono servite, e poiché non voleva riconoscerlo, fu forzato da Max Brod, l’amico e romanziere che gli fu vicino dagli anni dell’università e l’unico che capiva il suo talento, a farsi visitare da due medici specialisti, mentre la tubercolosi avanzava e Kafka, dopo la precedente sottovalutazione, si abbandonò ad essa.

Così spiega la malattia in una lettera a Milena: Il mio cervello non riusciva più a sopportare le preoccupazioni e i dolori che gli venivano imposti. Allora disse: mi arrendo. Se però c’è ancora qui qualcuno interessato al mantenimento del tutto, allora si sobbarchi una parte del mio peso e si tirerà avanti ancora per un poco. Così si presentarono i polmoni, molto da perdere certo non avevano. Queste trattative tra cervello e polmoni che avevano luogo a mia insaputa devono essere state terribili.

Kafka e Milena Jesenskà

Kafka e Milena Jesenskà

Alla fine di giugno, dopo una fitta corrispondenza, Kafka va a trovare Milena a Vienna.

Milena, nata a Praga nel 1886, aveva un passato burrascoso, non certo “rigida prussiana” come Felice. Era stata arrestata per un furto, che lei attribuì a crisi erotica; aveva abortito, era stata internata dal padre, professore universitario molto ricco. Sposò l’ebreo Pollak, altro schiaffo al padre che era nazionalista, pur di trasferirsi a Vienna. A volte faceva uso di cocaina, come molti suoi conoscenti.

Dal marzo 1920 a fine novembre Kafka le scrive anche più volte al giorno lunghissime lettere. Fino alla fine di agosto sono lettere infuocate. Si davano del Lei: Non so scrivere nulla, scorro solo tra le righe, sotto la luce dei Suoi occhi, nel respiro della sua bocca come in un giorno bello e felice che rimane bello e felice anche se la testa è malata, stanca.

E, ispirato da La vita nuova di Dante, che ben conosceva insieme con la Commedia, scrive: La mia amata è una colonna di fuoco che vaga sulla terra.

Altrove: Io vedo Lei più distintamente, i movimenti del corpo, delle mani, così veloci, così decisi, è quasi un incontro, tuttavia se poi voglio alzare gli occhi fino al Suo viso, nel corso della lettera- che razza di storia! – divampa il fuoco e io non vedo che fuoco.

Passano al “tu”. Queste tue lettere brevi, liete, o per lo meno naturali, come le due di oggi sono già quasi bosco e vento nelle tue maniche e panorama su Vienna. Milena, come si sta bene vicino a te!

Ti amo come il mare vuol bene a un minuscolo ciottolo sul suo fondo, proprio allo stesso modo ti inonda il mio affetto.

Quando le lettere di Milena diventano un fuoco, lui si scopre ambivalente, si ritira in sè: Ho paura e paura, cerco un mobile sotto il quale possa nascondermi, prego tremando e fuori di me in un angolo perché tu, come sei entrata rombante in questa lettera, possa volare di nuovo dalla finestra, non posso tenere in camera un uragano; in tali lettere tu devi avere la forza grandiosa della Medusa, così guizzano i serpenti del terrore intorno al tuo capo e, intorno al mio, ancora più selvaggi i serpenti dell’angoscia.

In quel tempo lei e Kafka si incontrarono più volte, ma due sono gli incontri decisivi, a Vienna e a Gmud.

L’incontro di Vienna avviene tra il 19 giugno e il 4 luglio 1920.

Nella sua prima lettera da Praga dopo quell’incontro lui scrive: “Milena, Milena, Milena, continuo a non poter scrivere altro”.

In qualche modo non posso più scriverti nulla se non quello che riguarda noi due, tra la folla del mondo, solo noi (…) le labbra balbettano e il viso riposa nel tuo grembo. Ma già era apparsa qualche nuvola, lei gli aveva detto: La lotta con l’anticamera non può durare a lungo (riferendosi agli indugi di lui di fronte al sesso).

Invece Kafka resta legato alla necessità di scrivere che vede antitetica all’attività sessuale: Non posso sacrificare il mondo “diurno” per mezz’ora a letto.

Di Vienna Milena ricorda le passeggiate in collina, lui stava bene, ha tossito una volta sola.

Lei dice al marito di questo amore. Pollak le si riavvicina.

Poi c’è l’incontro a Gmud, il preludio alla rottura. Scrive Kafka: “Ci parlammo e ci ascoltammo spesso e a lungo come estranei”. Subito dopo Gmund, tra il 14-15 agosto Milena va col marito a St. Gilgen per un periodo di riposo. Lei gli scrive: “Voglio bene anche a te”.

Kafka risponde: Cosa ho mai in contrario che tu pulisca davvero bene gli stivali: puliscili pure bene, poi mettili in un angolo e che sia finita (…) quello che mi tormenta talora (e non rende più lucidi gli stivali), è che tu, col pensiero, li pulisca tutto il giorno.

Dopo Gmud, Kafka, “l’animale del bosco” torna al suo elemento naturale, l’oscura profondità della terra che è anche metafora della scrittura, difesa e trappola che lo imprigiona: La tana.

Il 16 luglio esce su “Tribuna” il racconto Essere infelici tradotto da Milena, ma il loro rapporto è finito: No Milena, la possibilità che credevamo di avere insieme a Vienna non l’abbiamo, non l’avevamo neanche allora, io avevo guardato “oltre la mia siepe, poi sono ricaduto con le mani sbucciate”. Non dobbiamo scriverci più, che lo abbia detto io è solo un caso, avresti parimenti potuto dirlo tu.

Tuttavia lui lascia aperte delle fessure: Non c’è nessuna legge che mi proibisca di scriverti ancora (…) tu devi sempre scrivermi se in qualche modo sarà necessario, questo è ovvio.

Già prima, lei aveva capito e scritto a Brod la seconda di otto lettere che gli inviò: La prego, la prego, non pensi che io sia cattiva, che mi rendo la vita facile. Qui sono straziata, disperata, non lo dica a Frank, e non so cosa fare e come uscirne.

Max Brod

Max Brod

All’inizio dell’agosto del 1920, Milena risponde a una lettera di Brod: Lei chiede come accade che Frank abbia paura dell’amore e non della vita. Ma io credo che le cose stiano altrimenti. Per lui la vita è qualcosa di completamente diverso da tutti gli altri uomini, poi Milena ne descrive l’incapacità in qualunque cosa pratica, come trovare lo sportello giusto in un ufficio postale, contare e restituire una corona se è di troppo, mentre l’impiegato allo sportello gli assicura che il conto è giusto; nemmeno riesce a fare la carità a un povero se non dopo varie vicissitudini come il correre da un quartiere all’altro per non fargli capire che gli dà troppo. Tutto questo mondo è e rimane enigmatico per lui. Secondo ogni apparenza tutti noi siamo capaci di vivere perché una qualche volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo in qualcos’altro. Ma lui non è mai fuggito in un asilo protettore, in nessuno. (…) Tutti i suoi libri sono stupefacenti, ma lui stesso lo è molto di più.

Nel gennaio del 1921 Milena scrive ancora a Brod: Non so più cosa fare, il mio cervello non sopporta più nessuna impressione, alcun pensiero, non ne registra più, io non so nulla, non sento nulla, non comprendo nulla: mi sembra che in questi mesi mi sia accaduto qualcosa di terribile, ma non ne so molto. Non so assolutamente nulla del mondo, sento solo che mi ucciderei se potessi in qualche modo divenire cosciente di ciò che appunto si sottrae alla mia coscienza. So chi è Frank, so cos’è successo e non lo so, sono al limite della follia, mi sono sforzata di vivere e di agire correttamente, di vivere, di pensare secondo coscienza, ma da qualche parte la colpa c’è.

Via degli alchimisti a Praga, Kafka abitò nella casa azzurra nel 1916-17. Lì scrisse i racconti di Un medico di campagna

Via degli alchimisti a Praga: Kafka abitò nella casa azzurra nel 1916-17. Lì scrisse i racconti di Un medico di campagna

In un’altra lettera all’inizio di febbraio dello stesso 1921 riporta a Brod qualche riga inviatale da Kafka: Non scrivere e insieme evita che c’incontriamo, esaudisci in silenzio questa mia preghiera, essa sola può rendermi possibile una qualche sopravvivenza, tutto il resto mi distrugge ulteriormente.

Lei chiede a Max se ha reso infelice Franz, chiede notizie sulla sua salute, ma soprattutto vuole sapere la verità “in tutta la sua nudità”, niente di consolatorio o di psicoanalitico, “da mesi non so niente di lui”.

Nello stesso febbraio scrive ancora a Brod: Come potrei essere così immodesta da nuocergli, se non sono mai stata in grado di aiutarlo? Per quel che riguarda la sua angoscia la conosco fino all’ultimo nervo. Esisteva da sempre, anche prima di me, anche quando ancora non mi conosceva. E io ho conosciuto la sua angoscia prima di conoscere lui. Mi sono corazzata contro lei comprendendola.

Sempre attratta dalla seduzione erotica di Pollak, Milena non può amare un volto fatto solo di lettere, ed esprime a Max Brod il suo desiderio di una vita vicino alla terra che ha vinto sull’amore del volo, sull’ammirazione e ancora una volta sull’amore.

Travolta dal senso di colpa: Se allora fossi andata a Praga con lui, sarei rimasta per lui quella che ero. Ma io ero cresciuta con entrambi i piedi solidamente piantati in questa terra, non ero in grado di lasciare mio marito e forse ero troppo donna per avere la forza di accettare per sempre quella vita che sapevo avrebbe significato la più stretta ascesi (…) questa lotta in me è diventata troppo chiaramente visibile. Se ne può dire quel che si vuole ma ne esce solo una menzogna. Ero troppo debole e lei sa che è colpa mia. Quella che viene considerata la non-normalità di Frank, proprio questa è il suo pregio. Io credo che noi tutti, il mondo intero e tutti gli uomini siano malati e lui sia l’unico sano, quello che capisce davvero, sente davvero, l’unico essere puro. Io so che lui non si difende dalla vita, si difende solo da questo genere di vita. Se fossi riuscita ad andare con lui, avrebbe potuto vivere felice con me. Ma questo, tutto questo, lo so solo oggi. Allora ero una donna comune (…) Che mi ami lo so. E’ troppo buono e pudico per cessare di amarmi. Lo considererebbe una colpa. Crede sempre di essere lui il colpevole e il debole. Eppure non c’è in tutto il mondo un altro uomo che possieda la sua immensa forza, questa assoluta immutabile necessità di perfezione. Lo so fino all’ultima goccia di sangue che è così. Solo non riesco a prenderne piena coscienza. Quando accadrà sarà terribile. Corro per le strade, siedo notti intere alla finestra, talora i miei pensieri mi saltellano davanti come le scintille quando si arrotano i coltelli (…) Sono tanto sola come solo i muti lo sono e se qui le parlo di me è soltanto perché vomito le parole, mi vengono fuori in un profluvio, del tutto contro la mia volontà.

 

Nel 1922 Kafka scrive Il Castello. Il suo ultimo romanzo rispecchia l’amore tra lui e Milena, raffigurata in Frieda che cerca di salvarlo, diventa sua alleata, fonda con lui una famiglia in povertà e rinuncia a tutto per riportarlo all’immediatezza e ingenuità di una vita vera, ma quando lui è d’accordo e le stringe la mano, lei sente i vincoli precedenti (il Castello, la società, il misterioso Klamm, il marito da cui Milena non sapeva staccarsi) e la felicità finisce perchè K vuole avere Frieda solo per sé, mentre lei ritorna al Castello da dove è venuta.

Kafka muore il 3 giugno 1924 nel sanatorio di Kierling. Il suo necrologio scritto e pubblicato da Milena è un dolore così acuto nella sintesi di una vita che qui riduco alle ultime righe: Tutti i suoi libri descrivono l’orrore di una misteriosa incomprensione, di una colpa innocente tra gli uomini. Era un artista e un uomo dalla coscienza talmente sensibile che sentiva anche dove altri, sordi, si credevano al sicuro.

Il libro Lettere a Milena riporta inoltre due scritti e due articoli di lei, le sue lettere a Max Brod, lo straziante necrologio che non ho potuto e voluto riassumere.

Milena morì vent’anni dopo nel Lager di Ravensbruck accusata di avere aiutato la fuga di molti ebrei. Nel 1995 entrò fra “I giusti della terra” in Israele.

 

di Mario Baldoli

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