Il segreto del tasso [2]

marzo 2, 2016 in Letteratura da Silvano Danesi

220px-Merlin_by_Louis_RheadGabriele aveva scelto un giorno speciale per riaprire lo scrigno e rendere noto il messaggio: Samain.

Facendo emergere antiche conoscenze che stavano sepolte nel suo inconscio, eredità di altre incarnazioni, aveva scrutato il cielo e quando Antares, in levata eliaca, aveva fatto capolino nel cielo diurno un attimo prima che il sorgere del sole ne impedisse la vista, aveva guardato sul suo I Phone una app che dava le lunazioni. Samain sarebbe arrivata puntuale nella notte di luna piena susseguente alla levata eliaca di Antares, all’imbrunire, perché per i druidi, il giorno cominciava dalla notte e il mese dalla luna piena.

La vulgata commerciale aveva ridotto Samain ad una penosa festa in maschera, che tradiva persino il suo nuovo nome: Halloween, contrazione popolare di All-saints-eve, vigilia di tutti i santi,  dovuto alla cristianizzazione dell’antica ricorrenza sacra pagana. 

Nella notte di Samain tutti i fuochi venivano spenti e i druidi ne accendevano di nuovi, con l’antico rituale dello sfregamento del legno sul legno. Al nuovo fuoco, acceso con nove essenze, attingevano tutti i presenti al rito per riaccendere i focolari domestici. Iniziava così, con la luce prodotta dal legno, un nuovo anno, ma il senso più profondo ed esoterico della cerimonia era nascosta nel significato dei nomi.

In gaelico gwydd significava legno e, al contempo, sapienza e così i druidi accendevano un fuoco reale e un fuoco spirituale e i due fuochi si spandevano nei villaggi per inaugurare un nuovo anno per il corpo e per lo spirito.

La notte di Samain era anche il tempo magico nel quale il mondo materiale si connetteva al Sid, l’Aldilà e i viventi nel Sid tornavano a casa. Per loro si apparecchiava la tavola, nei piatti si ponevano vivande e nei bicchieri cervogia.

I mondi a Samain si toccavano e comunicavano e Gabriele, che sentiva agitarsi nelle profondità del suo inconscio il Gwydd che era stato, attendeva, con gli amici che qualche messaggio meno arcano contribuisse a chiarire il nuovo enigma emerso dallo scrigno e racchiuso in un quadrato magico.

Helen, che gli sedeva accanto, toccò il polso di Gabriele, come per richiamarne l’attenzione, ma, pur senza volerlo, innescò una reazione che lasciò gli altri amici a bocca aperta. Gabriele si era improvvisamente irrigidito e sembrava non essere più cosciente della realtà. I suoi occhi guardavano oltre ed erano immersi nei ricordi di uno strano giorno.

***

Strano giorno, davvero, quel giorno.  Le previsioni del tempo davano neve sicura, ma quando Gabriele, Padre Nicodemo e Irene ebbero superata l’ultima curva per imboccare la strada che portava alla piazzetta antistante la casa comunale di quel paesino ai piedi delle Alpi, che in tempi antichi si chiamava in gaelico Bar Ailt, di neve non ne videro, né in cielo, né in terra.

C’era invece un sole deciso, folgorante in un cielo limpido,  che rendeva ancora più fredda, se fosse stato possibile, l’aria di quella giornata autunnale.

Qualche giorno prima Gabriele era stato in quel luogo, che vecchie cronache, trasformatesi in leggende, narravano essere stato abitato dai Merlini.  Le antiche cronache narravano di un castello che portava il nome di Merlino, il cui castellano aveva per nome Merlilo. “Quel che ci conserva la tradizione e che è verosimilmente nel contesto delle cose – narrava in proposito una cronaca, chiaramente di parte – e che rimonta a lontanissimi tempi è che li Castellani erano i Signori e i Tiranni del paese e che tutto era subordinato a questi castelli e che sia per zelo di religione o per soverchia loro tirannia vennero distrutti; specialmente il Merlino che fu incenerito a furia di popolo coi suoi castellani, nell’incontro particolarmente di una processione, in cui i Pagani violarono e derubarono le cattoliche fanciulle”. Il nome del castello e dei suoi abitanti e l’accenno ai pagani induceva a pensare ad antiche presenze druidiche e aveva destato la curiosità di Gabriele.

Un’altra antica tradizione narrava dell’esistenza, nelle cave di rame, chiamate ramine, per lungo tempo coltivate e poi abbandonate, di gallerie, “profonde e paurose”, nelle quali sarebbe vissuto un serpente dall’anello d’oro, a cui nessuno osò mai avvicinarsi perché annientava con lo sguardo, custodito dalle streghe, le quali, durante l’infuriare dei temporali, uscivano dai loro domini sotterranei e ballavano, sotto le intemperie, sui prati.

A dar man forte alle leggende c’erano evidenze megalitiche. Gabriele ne parlò all’amico Padre Nicodemo, uomo di vasta cultura, di notevole esperienza in campo archeologico e dotato di notevoli capacità medianiche sin dalla più tenera età.

Padre Nicodemo era poco incline, nonostante le sue doti, a lasciarsi andare a fantasie o ad illusioni  ed era quindi l’uomo giusto per capire se le impressioni di Gabriele fossero corrette e potessero portare a qualche interessante scoperta.

Gabriele e Irene, quando Padre Nicodemo fu disponibile per una visita in Italia, lo portarono sul sito per un accurato sopralluogo.

Padre  Nicodemo ebbe, infatti, subito modo di mettere a frutto la sua esperienza, identificando pietre, geometrie, riferimenti cardinali e stellari, vecchie fonti dal carattere sacro.

La parte più interessante, tuttavia, secondo Gabriele, che aveva già dato un’occhiata, era in un’area dove si intravvedeva un cerchio di pietre.

Raggiunta una baita che serviva da fienile e da stalla per alcune mucche, Gabriele, Irene e Padre Nicodemo si incamminarono per un sentiero che portava, attraverso alcuni prati, al cerchio.

Nel prato più alto trotterellava un puledro dalla criniera bionda.

Gli amici scesero rapidamente lungo i prati. Una leggera brezza, tesa e gelata, toglieva ogni illusione di calore che poteva essere dato dal sole, già alto nel cielo.  Il freddo era pungente e i colori vivi e brillanti. Gli alberi, in gran parte spogli, ad eccezione delle maestose conifere, consentivano una visuale ampia. Il prato era imperlato di una leggera brina gelata che stentava a sciogliersi. Arrivati a delle pietre disposte come le cinque dita di una mano, sul fondo dei prati, gli amici si fermarono e volsero lo sguardo verso l’alto. Fu allora che videro distintamente i cerchi di pietre emergenti dal terreno. In una stagione diversa l’erba ne avrebbe impedito la visione d’insieme, ma in quella tersa giornata invernale i prati erano rasi e gli allineamenti in tre cerchi, quasi concentrici, erano perfettamente visibili.

Nicodemo era occupato con la bussola. Gabriele cercava di capire il senso di alcune rocce disposte in due file ortogonali fra di loro e poste ai due lati esterni dei cerchi.

Ad un tratto Gabriele ebbe l’impressione di ….vedere… .

E ora, mentre il suo corpo era in quella casa ai limiti della foresta delle Ardenne, Gabriele rivedeva. La sua consapevolezza era di nuovo in quel luogo, immersa in quella visione.

Condividi: Email this to someoneShare on FacebookTweet about this on TwitterShare on Google+Pin on Pinterest