Mutilazioni genitali femminili tra ragioni culturali e sensibilizzazione
gennaio 27, 2015 in Approfondimenti da redazione
di Engela Sikder e Chiara Zonta
I PARTE
L’OMS nel 1995 ha definito ufficialmente come “Mutilazioni Genitali Femminili” (MGF) tutte le pratiche che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altri danni agli organi genitali femminili compiuti sulla base di motivazioni culturali o di altre motivazioni non terapeutiche. L’Organizzazione stila una classificazione in quattro categorie: Tipo I – Circoncisione (escissione del prepuzio con o senza l’asportazione di parte o di tutto il clitoride); Tipo II – Escissione (escissione del clitoride con asportazione parziale o totale delle piccole labbra); Tipo III – Infibulazione (escissione di una parte o di tutti i genitali esterni e chiusura o restringimento dell’ingresso in vagina); Tipo IV – Inclassificabile (ogni altra procedura che rientra nella definizione di MGF).
Già la definizione è di per sé problematica e oggetto di discussione, per diversi motivi. Il principale consiste nella sua carica offensiva ed etnocentrica: le donne coinvolte (provenienti dall’Africa subsahariana e principalmente dal Corno d’Africa e dall’Egitto) rifiutano di autodefinirsi “mutilate”, specialmente perché si tratta di operazioni compiute nella certezza di fare il loro bene. Infatti, mentre in “mutilazione” c’è già l’idea di condanna e di reato, nella terminologia indigena emergono, all’opposto, significati di completamento e di rito (pulizia, purificazione; cucitura, sigillo; iniziazione, integrazione, tradizione). È quindi evidente la forte valenza simbolico-culturale e sociale che assumono tali procedure e, al tempo stesso, la difficoltà di comprensione tra “noi” e “loro”, risolvibile solo con il dialogo.
Per accingersi al dialogo e prima di ogni forma di intervento, gli operatori socio-sanitari avranno bisogno degli strumenti di comprensione che l’antropologia medica può fornire, attraverso l’analisi delle “motivazioni culturali” e “non terapeutiche” di cui le MGF costituiscono il segno più discusso e manifesto. Si tratta di un’indagine complessa e delicata, che corre lungo un filo sottile tra i fuochi della condanna a priori da un lato e della difesa in nome del relativismo culturale dall’altro.
Il dibattito antropologico a proposito è tuttora piuttosto acceso; inoltre, è necessario tener conto di quanto situazionali siano ciascuno degli aspetti implicati, rendendo così necessarie analisi (e procedure) micro-contestuali. In particolare, pratiche e valori associati incorrono in significativi processi di ricontestualizzazione nell’incontro/scontro con i Paesi d’immigrazione. Va infatti ricordato che la “cultura”, così come la “comunità”, sono fluide e dinamiche, plasmate e riadattate a seconda dei tempi, dei luoghi e delle relazioni – e questo è precisamente il motivo per cui è possibile contrastare la perpetuazione delle MGF.
Generalmente nella letteratura antropologica il panorama dei profili motivazionali viene euristicamente suddiviso in: identitari, estetico-igienici, sessuali e psicologici, religiosi. La valenza identitaria sembra predominante e attiva su due livelli: l’appartenenza al genere e alla comunità. Le MGF istituiscono il ruolo sociale femminile inscrivendolo sul corpo biologico (neutro o “androgino”), che viene così completato e perfezionato attraverso quella che fisicamente è, invece, una escissione, ablazione o mutilazione degli organi sessuali considerati “inutili” se non addirittura “dannosi” e “pericolosi”. La modificazione dei genitali sia femminili che maschili appare giustificata da un comune scopo: quello di eliminare l’elemento di ambiguità sessuale (prepuzio e clitoride).
Di fatto, tuttavia, c’è un’asimmetria molto pronunciata tra gli effetti fisici e simbolici dei due interventi: laddove la circoncisione maschile esalta la virilità e il rapporto di dominio (rende l’uomo più uomo), le MGF sviliscono e invalidano la sessualità femminile, rendendone più evidente la sottomissione e il ruolo passivo (la donna è menomata di autorevolezza, diritti e piacere). È interessante notare come il valore della donna, riassunto nella sua fecondità (prerogativa femminile, come la sterilità, in contrapposizione all’incapacità di procreazione maschile) viene sancito e celebrato proprio tramite la svalutazione sessuale – che diviene, tra le donne, motivo di orgoglio e forza. Inoltre, la modificazione degli organi sessuali femminili è condizione necessaria per contrarre un matrimonio e accedere così al ruolo di moglie e madre, gli unici e i migliori tra i ruoli sociali possibili, perché i soli che le assicurano le forme di tutela all’interno della comunità. Per questo motivo sono le madri stesse ad insistere affinché le figlie vengano operate, nonché sul fatto che i figli sposino donne di cui è garantita la “purezza”, la “pulizia” e, nel caso dell’infibulazione, la “chiusura”.
La pratica viene reiterata nei Paesi di immigrazione non solo come “marchio etnico” – in opposizione ad un Occidente scostumato in cui è difficile e temuta l’integrazione; bensì pure e soprattutto per assicurare alle figlie la possibilità di sposarsi – all’interno della comunità ricreata nel Paese di arrivo o nel caso di un futuro ritorno in quello di provenienza. In un mondo sempre più connesso, bisogna tener conto anche delle capacità di pressione che la comunità di partenza mantiene sulle giovani famiglie immigrate così che la “tradizione” non vada perduta. Peraltro, nei contesti di arrivo si registra la tendenza ad anticipare tali interventi, per diminuire sia il dolore, sia le possibilità di denuncia (anche da parte delle stesse vittime), dato che ledono il diritto all’integrità della persona e sono pertanto puniti; e capita che solo anni dopo si insedi la consapevolezza che l’intervento, perlomeno qui, poteva essere evitato.
II PARTE
Le modificazioni genitali femminili vengono anche motivate dal punto di vista psicologico e sessuale, assumendole come mezzo per prevenire attività sessuali incontrollate. Si protegge la donna dal desiderio sessuale degli uomini (anche in questo senso le MGF assicurano tutela sociale diffidando possibili abusi) ma soprattutto dal desiderio sessuale femminile (intervenendo sul principale organo sensore), minaccioso per la castità della figlia e la fedeltà della sposa, nonché per l’onore della sua famiglia. Inoltre, in molte comunità sussiste la credenza che tali interventi aumentino la fecondità. Non solo: sono praticati come specifica preparazione al ruolo di moglie (e quindi all’attività sessuale, togliendo ciò che si contrappone alla virilità del marito) e al ruolo di madre (e quindi al parto, eliminando organi di “disturbo” al nascituro).
Strettamente connesse a queste sono le connotazioni estetico-igieniche: nella terminologia ricorrente, gli organi genitali esterni sono percepiti come “sporchi”, “vergognosi” e “pericolosi” e, una volta modificati, diventano “puliti” e “belli”. Tale percezione ha a che fare, più che con la gestione del corpo in sé (che di fatto diventa assai più problematica), con la condotta morale della donna, buona da sposare e per assicurare una discendenza (maschile) proprio in virtù di una manifesta “purezza”. Intervengono anche eventuali aspetti religiosi, connessi alla sacralità della verginità pre-matrimoniale e al valore, appunto, della “purezza”, entrambe associate all’universo femminile, come virtù e insieme necessità.
Rispetto alle altre categorie di MGF, l’infibulazione merita un’analisi a parte. Oltre alla funzione “correttiva” (culturale prima che fisica) su un corpo naturalmente difettoso, togliendo l’eccedente, ed ad una funzione “calmante” rispetto agli appetiti sessuali femminili, tale pratica assume la forma del controllo totale sul corpo della donna. La riapertura spesso brutale svolta dallo stesso marito e le operazioni di re-infibulazione praticate in alcuni casi ne sono la dimostrazione più esplicita. L’infibulazione è una vera e propria castrazione, che assoggetta l’intera sfera della sessualità al volere del marito, rendendola peraltro decisamente dolorosa. Gli effetti, poi, si manifestano sul corpo intero, imponendo (ed impedendo) movimenti e posture anti-strappo, rendendo impossibile tutta una serie di esperienze nel mondo e di interazioni con le persone.
Un’altra critica alla definizione dell’OMS è il fatto che tali considerazioni si applicano – in linea generale – non esclusivamente alle modificazioni genitali. Con le dovute differenze pratiche e simboliche (e conseguenze psicologiche e patologiche), molti degli aspetti brevemente tratteggiati si ritrovano in una grande varietà di riti di istituzione della donna e del suo ruolo sociale – connotati dalla fecondità e volti a sottolineare la subalternità rispetto all’uomo, che si aspira a sposare per poi divenire la madre dei suoi figli. Si possono citare, tra gli esempi forse più noti, i “gigli dorati” cinesi (la deformazione dei piedi attuata fino a metà ‘900), l’allungamento del collo tramite anelli delle donne Kayan del Burkina Faso, così come – è un paragone azzardato, considerati i risvolti decisamente più innocui, ma pertinente – l’obbligo della ceretta e l’uso del tacco nelle società occidentali.
Per restituire un quadro completo delle ideologie e delle pratiche legate alle modificazioni genitali, può essere interessante fare un parallelismo con la storia del pensiero scientifico occidentale. Nel XIX secolo l’operazione chirurgica che andava sotto il nome di “clitoridectomia” o “isterectomia”, era una terapia praticata su donne ritenute affette da isteria. La sindrome da isterismo, caratterizzata da uno stato di eccitazione esagerata e incontrollata, si ritrova come malattia già nell’antica Grecia, durante il Medioevo e il Rinascimento. In origine veniva associata a specifiche cause organiche e, alla fine del XIV secolo, il trattamento dell’isteria passava attraverso interventi che avevamo come obiettivo quello di ristabilire un presunto equilibrio dei fluidi a livello dei genitali.
Colui che, a torto o ragione, viene considerato come lo scopritore dell’isteria intesa come patologia riconducibile al sistema nervoso è Jean Martin Charcot (1825-1893), noto come uno dei fondatori della psichiatria dinamica. Charcot definiva l’isteria come una nevrosi particolare che si presenta sotto forma di crisi periodiche e stigmate permanenti. Benché fosse convinto che i sintomi potessero manifestarsi anche negli uomini, lavorando presso un istituto riservato a malati di sesso femminile si trovò a operare prevalentemente con donne. La terapia prevedeva anche una serie di fumigazioni, aromatiche o mefitiche, dall’alto e dal basso, o compressioni tramite appositi strumenti per spingere l’utero in una posizione consona.
L’invenzione di una patologia isterica – corredata e avvalorata da una precisa sintomatologia, eziologia, diagnostica e, come si è visto, trattamento terapeutico – rappresenta il punto di arrivo di una tradizione che vedeva nella sessualità della donna un elemento perturbante e potenzialmente eversivo rispetto all’ordine costituito. In questo senso, gli interventi sugli organi genitali delle donne a scopo “terapeutico” presentano uno scopo correttivo conforme a un preciso schema ideologico, che va ad affermare la gerarchia della dominazione maschile e anche una rappresentazione della sessualità femminile con una forte connotazione morale, tanto che la sua manifestazione assume i contorni di un eccesso e un’anomalia patologici. Le forme di mutilazione genitale femminile descritte nei manuali medico-chirurgici occidentali, come anche le Mgf, si innestavano quindi su un sottoinsieme ideologico che di fatto riconfermava il ruolo della donna all’interno della società e una precisa struttura di rapporti di forza tra i generi.
Ancora oggi esistono e si stanno diffondendo in Occidente pratiche di chirurgia estetica sui genitali femminili, dette di “Aestethic Vaginal” o “Sex Cosmetic Surgery” che, nonostante i molti possibili effetti collaterali sulla salute psico-fisica e la loro irreversibilità, sono comunemente accettate o addirittura incoraggiate. Tuttavia, se è vero che le donne scelgono di sottoporvisi volontariamente e sono adeguatamente informate su procedure e conseguenze, è altrettanto vero che – al pari delle MGF tradizionalmente riconosciute come tali – la motivazione profonda è il bisogno di adeguare il proprio corpo ad un canone estetico imposto dal genere maschile.
III PARTE
In sintesi, noi riteniamo che un’analisi di tipo antropologico dell’universo simbolico, sociale e culturale che dia forma e che comprenda i motivi di persistenza della pratica delle MGF sia essenziale per avviare operazioni di sensibilizzazione con le donne coinvolte, con i medici e gli operatori socio-sanitari, con i cittadini comuni. Purtroppo, anche per quanto riguarda la sensibilizzazione, si registrano entrambe le tendenze individuate nel dibattito antropologico, ovvero la condanna a priori – spesso in toni sensazionalistici – oppure la difesa multiculturalista – che si traduce in proposte di “medicalizzazione” delle pratiche stesse.
Nel primo ambito, rientrano molte delle pubblicazioni esistenti in Italia sulle cosiddette MGF, che presentano forti limiti a livello dell’analisi sia qualitativa che quantitativa: non solo trascurano le categorie antropologiche che contribuiscono alla produzione e reiterazione della pratica; bensì pure si basano su numeri, del tutto arbitrari dato che dipendono da fonti parziali o addirittura congetturali. Questi dati non permettendo al lettore una adeguata visione del problema (se non in termini di paragone) mirano semplicemente a creare un forte impatto senza offrire strumenti ulteriori per approfondire la questione.
Altra forma più sottile – e, per certi versi, subdola – di condanna si riscontra nel modus operandi dell’ambiente medico-sanitario. L’esperienza di ricerca in quest’ambito riconferma quanto i saperi antropologici vengano poco presi in considerazione nell’elaborazione dei dati, di fatto attribuendo a questi ultimi la mancanza di una presunta “neutralità”, “scientificità” ed “esaustività” che caratterizzerebbe, invece, il sapere ospedaliero. Tuttavia, nelle stanze e nei corridoi di questo stesso ambiente non è raro confrontarsi con il venir meno della professionalità nel rapporto con le donne “mutilate”. Tra i casi più frequenti, si riportano l’abbandono da parte del medico del tono formale (dando del “tu” e chiamando per nome le pazienti) e della discrezione (ad esempio, discutendo dell’esotica mutilazione in presenza di estranei senza previo consenso o in spazi non consoni come possono essere i corridoi). Anche il personale infermieristico non adeguatamente preparato può rivelarsi protagonista di trattamenti imbarazzanti o umilianti per le pazienti.
Una corretta gestione del rapporto con i pazienti, nella fattispecie con donne migranti “mutilate”, comporta la radicale revisione di quelle categorie e pratiche mediche che vengono riproposte come indiscutibili o come parte di una normale amministrazione. L’autoreferenzialità del sapere medico-sanitario non agevola il cambio di direzione: per scegliere in modo consapevole il cambiamento, si deve collaborare alla realizzazione di un sapere più ampio, in cui le diverse competenze possano comunicare in termini dialettici (e non di sovrapposizione), mettendo in discussione e rielaborando modelli interpretativi, strumenti e procedure.
Non condannare a priori non significa attuare, al contrario, un’accettazione acritica delle pratiche e della loro perpetuazione. Alcuni studiosi, richiamando all’estremo il concetto di relativismo culturale, ritengono che le Mgf non debbano essere ostacolate in quanto rappresentano pratiche culturali importanti che permettono all’individuo di mantenere una propria identità sia come singolo (differenziazione di genere, di età, di status) sia come parte di una comunità o di un gruppo più grande. In questo discorso si inserisce la “medicalizzazione” delle MGF, la cui dannosità verrebbe attenuata dal deterrente di strutture sicure e asettiche, quali ospedali e ambulatori, e di soggetti consenzienti, in grado di intendere e di volere. Queste precauzioni, tuttavia, non implicano necessariamente la scomparsa dei fattori di rischio sulla salute psico-fisica della “paziente”. Non bisogna infatti dimenticare che, a differenza di altre modificazioni corporali permanenti, si tratta di una procedura chirurgica di rimozione totale. Il carattere di irreversibilità della pratiche escissorie non è marginale, e comporta effetti non solo sulla vita sessuale ma anche sullo stato psico-fisico della persona coinvolta senza possibilità di tornare indietro, nemmeno con le più sofisticate procedure medico contemporanee.
La domanda che ci dovremmo porre è fino a che punto la “non ingerenza” in nome di un “diritto alla diversità culturale” sia giustificabile, e come si devano considerare le pratiche tradizionali che vanno a ledere, invece, il diritto all’integrità psico-fisica delle persone coinvolte. L’artificio attraverso cui si è venuti a costruire l’immagine della “donna mutilata” si basa su un’asimmetria di potere e di genere che fanno perno su una visione paternalistica e unilaterale, che sia il venir meno della professionalità che la sua eccessiva applicazione contribuiscono a reiterare.
IV PARTE
L’azione legislativa non è una soluzione, se manca una parallela ed adeguata campagna di sensibilizzazione. Infatti, non solo nei paesi di origine ma anche in quelli di arrivo, le MGF vengono praticate, benchè vietate. Anche nei paesi di provenienza in cui vigono a riguardo leggi anche piuttosto repressive – quali la Repubblica Centro Africana, l’Egitto, il Ghana, il Senegal, la Somalia e il Kenya – tali pratiche continuano ad essere attive e diffuse: la legge ha un ruolo minore rispetto alla norma consuetudinaria che le reitera, perché le sanzioni hanno un peso minore rispetto alla paura dell’isolamento sociale. Il valore simbolico-estetico-identitario permane come una componente forte e vincolante nelle comunità.
In conclusione, è necessario intervenire sulla comunicazione. Questa, per essere adeguata e funzionante “oltre a superare gli specialismi, deve costruire spazi di mediazione che possano tradursi in strumenti e concetti utili per poter dare vita a saperi e competenze ‘ponte’ fra un ‘qui’ e un ‘altrove’ che altrimenti rimarranno sempre tali.” (Fusaschi, 2003)
Partendo dal presupposto che per rendere la comunicazione efficace giocano un ruolo non indifferente il linguaggio che viene utilizzato, l’adozione del termine “modificazione” anziché “mutilazione” può essere utile al fine di costruire con le migranti uno spazio neutro, con meno pregiudizi possibili, base essenziale per instaurare un dialogo e, successivamente, individuare il percorso adeguato da affrontare. Inoltre, nella realtà migratoria uno dei principali fattori di attrito è data dalla contrapposizione del “noi/loro”: in materia di MGF, l’immaginario collettivo di “loro” sottende l’idea di gruppi chiusi e autoreferenziali. Il dialogo, in questo senso, è il principale strumento dell’integrazione necessaria a superare i vincoli della comunità di origine senza perdere la propria identità nel processo e, anzi, contribuendo a costruire un’identità dialettica nella sua integrità.
Solo un lavoro svolto a livello locale, nel confronto quotidiano con gli attori sociali coinvolti, può permettere di registrare piccoli cambiamenti. L’acquisizione di una maggiore consapevolezza rispetto ai rischi e alle conseguenze che le pratiche comportano rappresenta un passo fondamentale, ma ancora più importante è l’accesso alle informazioni sulle motivazioni soggiacenti alla pratica, necessario per comprendere e scegliere. Infatti, si riscontra che spesso le donne che hanno subito tali modificazioni non sono del tutto consapevoli né dei rituali né tanto meno del ruolo che hanno nella reiterazione del dominio maschile.
Esempi positivi di campagne di sensibilizzazione sono forniti da alcune associazioni femminili intervenute sia a livello nazionale che internazionale, come nel caso dell’ONG Tostan in Senegal, che ha operato attraverso un programma di educazione ed informazione di base con risultati importanti nel breve-medio periodo. In questi casi, la diffusione delle informazioni e la partecipazione locale ai percorsi attivati hanno rivestito un ruolo fondamentale, nel rendere efficaci i progetti.
Non è solo l’universo femminile a dover essere coinvolto, ma anche quello maschile, a partire dalle associazioni che si occupano specificatamente di sensibilizzare sulle problematiche legate alle MGF. È fondamentale capire che la questione riguarda non solo il singolo individuo nella sua responsabilità sociale ma la società nel suo complesso, in termini di condivisione, partecipazione e dialogo. Si chiama in causa la compartecipazione responsabile delle scelte effettuate, scelte che vanno poi a estendersi alla comunità e al gruppo d’appartenenza.
La persistenza o la diminuzione di tali pratiche – e degli effetti che comportano – avverranno anche per colpa o grazie alle scelte che “noi” insieme a “loro” decideremo di intraprendere e perseguire.
Bibliografia:
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Ciminelli M.L., “Le “ragioni culturali” delle mutilazioni genitali femminili: note critiche sulla definizione di MGF dell’Oms/Who” in Rivista Folklorica n.46 – Ottobre 2002.
Fusaschi M., 2003, “I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili”, Bollati Boringhieri, Torino
Héritier F., 2004, “Dissolvere la gerarchia. Maschile / Femminile II”, Cortina Raffaello, Milano
Marrone A., Sannella A. (a cura di), 2010, “Sessualità e culture. Mutilazioni genitali femminili: risultati di una ricerca in contesti socio-sanitari”, Franco Angeli, Milano
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