Percorsi paesaggi abbandoni nei versi di Giorgio Caproni

gennaio 27, 2014 in Album fotografici, Letteratura da Pino Mongiello

LUOGHI DELLA POESIA SULL’ORLO DEL SILENZIO E DEL VUOTO

1242289173-caproni_galluzzo_1[1]La rima del titolo è voluta. Il maestro elementare Giorgio Caproni la usava spesso con i suoi piccoli allievi. Durante la lezione suonava anche il violino (oggi custodito al teatro Goldoni di Livorno) per educare l’orecchio dei ragazzi alla voce magica dello strumento, ma anche alla melodia e, più in generale, alla dimensione della musica, fatta di ritmi, di pause, di riprese, di silenzi. Il suo primo insegnamento lo esercitò in Val Trebbia, negli anni Trenta, tra Loco di Rovegno e Fontanigorda, dove i boschi sono popolati di fate e di castagni, e dove conobbe il suo primo, luttuoso amore, Olga Franzoni, ma dove conobbe poi anche colei che fu la donna della sua vita, Rina Rettagliata, che sposò nel 1938. Caproni era nato nel 1912 a Livorno, città che gli rimarrà nel cuore insieme al ricordo della mamma Annina: «Come scendeva fina/ e giovane le scale Annina!/ Mordendosi la catenina/ d’oro usciva via/ lasciando nel buio una scia/ di cipria che non finiva…». La famiglia si era poi trasferita, quando lui aveva 10 anni, a Genova, che diventerà ben presto la  sua città d’elezione: «Genova mia città intera …» e, via di seguito, con quelle parole tutte in sequenza, come una litanìa: «Genova verticale … Genova mio rimario … Genova mia tradita, rimorso di tutta la vita … Genova tutta tetto. Macerie. Castelletto. … Genova che mi struggi. … Genova e così sia, mare in un’osteria. …».

Nel 2012, anno celebrativo del centenario della nascita di Caproni, ho percorso i luoghi della sua vita, sostando in Val Trebbia, a Genova, a Livorno, con l’intento di raccogliere qualche testimonianza che lo riguardasse, qualche scorcio di paesaggio montano da lui battuto, qualche angolo urbano delle due città di mare: il Castelletto a Genova, il Voltone a Livorno. Avevo con me il libro delle sue “Poesie” (Garzanti) e la preziosa plaquette Scheiwiller contenente il carteggio Caproni-Luzi “Carissimo Giorgio, Carissimo Mario – Lettere 1942/1989” regalatomi dall’amico pientino Nino Petreni. A vederli insieme, i due poeti, li si sarebbe potuti immaginare intenti a contrapporsi dialetticamente sulla questione di Dio: Caproni,”l’ateologo”, e Luzi “convinto e perfetto cattolico”. Invece no. Fin dall’inizio, senza neppure conoscersi, tra i due nacque un rapporto di stima e di comprensione che sfociò successivamente  in una solida e cristallina amicizia. L’occasione fu data dalla pubblicazione della raccolta di poesie luziane “La barca”, nel 1935, che Caproni rencensì su un giornale siciliano nel novembre di quell’anno, senza neppure conoscerne l’autore. Di Luzi lo aveva colpito «un radicato affetto per le cose dei sensi, e il dolore che, con la coscienza della lor vanità, esse arrecano all’anima». Ma Caproni aveva colto anche, nelle parole di quel poeta quasi coetaneo, che «il dolente trasporto verso la terrestrità è lenito dal tocco di una grazia che ovunque conforta alla vita vera».

È stato detto che la poesia di Caproni sta sull’orlo del silenzio e del vuoto, che nelle sue parole non c’è traccia di illusione, che il suo non è mai un sognare ad occhi aperti. La poesia di Caproni ha i tratti del suo profilo somatico: capelli cortissimi e bianchi, fisico asciutto, simile a un nocciòlo nodoso. Così voleva che fossero i suoi versi: «sii magra e asciutta, pia/ sii magra e sii poesia/ se vuoi essere vita». Come sono emblematici i titoli che dava alle sue raccolte: Il seme del piangere, Il muro della terra, Il franco cacciatore, …! Si può dire che sia una costante delle sue poesie l’urtare contro le misteriose barriere della morte. Frequenti sono i suoi colloqui con la giovane Olga, troppo presto stroncata e tolta al suo abbraccio; con la madre Annina, amata quasi come un’amante nella sua baldanzosa giovinezza.

Fotografia di Mario Dondero

Fotografia di Mario Dondero

 E l’inquieta ricerca di Dio? Difficile è – sembrava dire Caproni – portarlo al centro di noi stessi perché ogni passo ci porta fuori, dove Dio è sempre assente. C’è una domanda che pare una frustata nelle sue lapidarie poesie, come in questa “Postilla”: (Non ha saputo resistere/ al suo non esistere?)”. Oppure c’è anche questa “Benevola congettura”: «Non mi ha risposto./ Gli ho scritto tante volte./ Non mi ha mai risposto./ Io credo che sia morto. Non penso/  che si tenga nascosto”.

Giorgio Caproni ritornava spesso con la mente, ma anche per le ferie, nei posti della Val Trebbia, dove aveva insegnato, dove si era sposato, dove aveva fatto il partigiano, senza però aver ammazzato nessuno. Allontanarsi da quei luoghi, sempre più votati allo spopolamento, diveniva  allora un assillo amaro. Lo dice in “Lasciando Loco”: «Sono partiti tutti./ Hanno spento la luce,/ chiuso la porta, e tutti/ (tutti) se ne sono andati/ uno dopo l’altro./ Soli,/ sono rimasti gli alberi/ e il ponte, l’acqua/ che canta ancora, e i tavoli/ della locanda ancora/ ingombri – il deserto,/ la lampadina a carbone/ lasciata accesa nel sole/ sopra il deserto./ E io,/ io allora, qui,/ io cosa rimango a fare,/ qui dove perfino Dio/ se n’è andato di chiesa,/ dove perfino il guardiano/ del camposanto (uno/ dei compagnoni più gai/ e savi) ha abbandonato/ il cancello, e ormai/ – di tanti – non c’è più nessuno/ col quale amorosamente/ poter altercare?»

 Ma il morire degli amici o il venir meno delle persone conosciute non accadeva solo in Val Trebbia. La stessa cosa accadeva anche a Livorno. Gli capitò di scrivere, allora, la poesia “Scalo dei fiorentini”: «Li ho visti tutti. Sedevano/ (le gambe penzoloni)/ sulla spalletta. C’era/ Otello, il Decio, il Rosso,/ l’Olandese. Il Vigevano./ C’erano altri…/ …Erano/ in fila, tutti/ in fila, sul muricciolo,/ proprio come facevano/ ogni sera, quando/ – animato il Voltone/ di voci che si spandevano/ … sputavano/ la sigaretta, e schioccando/ le dita, ohei, che gridi/ …lanciavano alle ragazze/ … C’erano tutti. Guardavano,/ bianche, le due statue al centro./ … Sotto di loro, nero,/ il Fosso sciacquava acqua/ e acqua sfatta. …/». Ma da quella piazza tutti erano ormai spariti. Rimaneva solo, immaginandola, l’eco delle loro voci. Il poeta si mise a ripetere i loro nomi: «Nessuno m’ha richiamato/ – nessuno – indietro». La guerra se li era inghiottiti tutti.

Nel cimiterino di Loco, in Val Trebbia, riposano i corpi di Caproni e della moglie Rina, uno accanto all’altro. Il poeta aveva  scritto, come fosse un testamento: «Lasciate senza nome, senza data, la pietra bianca, che un giorno mi coprirà, col sole. Prenderà (forse) il colore delle mie ossa, sarà nella sua cornice nera, la mia faccia vera».

1. I luoghi del poeta: Val Trebbia

2. I luoghi del poeta: Genova

3. I luoghi del poeta: Livorno

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