Poveri, ma belli? Non più, non ora

agosto 22, 2022 in Attualità, Recensioni da Laura Giuffredi

Saraceno copertinaSe il benessere nei paesi evoluti è decisamente aumentato nell’ultimo secolo, e soprattutto nel secondo dopoguerra, ancora oggi appaiono deboli e inadeguati gli strumenti delle democrazie occidentali per combattere la povertà, nonostante essa si stia manifestando a livello globale come una priorità assoluta da affrontare, mentre la ricchezza nelle mani dei più ricchi aumenta di 2,5 miliardi al giorno (Oxfam). Riuscire a mettere fine alla povertà nel mondo è individuato come il primo obiettivo dell’ “Agenda ONU 2030”.

Della situazione italiana in particolare, pur se inserita nell’analisi del quadro europeo, si occupa lo studio di CHIARA SARACENO, DAVID BENASSI, ENRICA MORLICCHIO, La povertà in Italia, appena pubblicato da Il Mulino (nel 2018-20 ne uscì la prima edizione, in inglese, ora aggiornata).

Per parlare della povertà nel nostro Paese, gli autori, oltre a compiere un excursus storico dall’Unità in poi, considerano in particolare le due grandi crisi globali più recenti: quella finanziaria del 2008 e quella generata dalla pandemia di Covid dal 2019 ; crisi che in Italia più che altrove sono state rivelatrici di debolezze strutturali della nostra economia e del nostro sistema di protezione sociale.

Lo studio dimostra innanzitutto la tipicità del regime di povertà “mediterraneo” al quale appartiene oggi l’Italia, in base a indicatori quali:

  • – grado di inclusività del mercato del lavoro
  • – ruolo della solidarietà familiare
  • – ruolo ed efficacia delle politiche di welfare
  • – dimensioni della povertà e gruppi sociali a rischio

La nostra posizione in questo quadro risulta critica.poveri-625x350

Nell’analisi, se si parte dallo spartiacque della crisi finanziaria del 2008, il primo dato sorprendente è che nei paesi più ricchi la crescita dell’occupazione non aveva fino a quel momento portato a una diminuzione della povertà e questo a causa di occupazione a bassa remunerazione, contratti precari, basso salario orario. E l’Italia non costituì un’eccezione.

I governi generalmente risposero alla crisi salvando le istituzioni finanziarie, ma non adeguatamente aumentando la spesa sociale, anzi, imponendo drastiche misure di austerità: grave fu la situazione soprattutto nei paesi, come l’Italia, con alto debito pubblico.

L’Italia non ha sofferto la crisi come la Grecia, ma è stata il paese mediterraneo meno capace di cambiare le proprie politiche (tranne che per le pensioni, sempre “protette”): in risposta alla crescita della povertà, si scese la strada dei tagli alla spesa sociale (opposto il comportamento, ad esempio, del Portogallo, che aumentò la spesa per le famiglie, con ottimi risultati).

Poi la pandemia ha, in pratica, aperto il “vaso di Pandora” delle nostre difficoltà, condivise con molti altri paesi, ma certamente amplificate da una nostra fragilità di sistema, che ha una lunga storia: ad esempio nel nostro mercato del lavoro, più che in altri paesi, la portata non marginale dell’economia informale, ha rivelato in modo inequivocabile l’importante quota di popolazione a rischio di bassi salari e di occupazione non protetta, né proteggibile con i consueti meccanismi di welfare.

Per un Paese come l’Italia, che trova spazio nel G7, si tratta di uno scenario non confortante.

Tuttora, in sintesi, il sistema di protezione italiano favorisce gli anziani, specie se ex-occupati; invece i giovani, incastrati nel precariato e mal pagati, sono penalizzati e il Job Act introdotto nel 2014 non sa risolvere le storture, anzi le aggrava . La complessità della situazione ci fa dire che l’Italia non è un Paese per giovani: tra i segnali di questo stato di cose spicca il dato per cui nel 2019 in Italia il 64% delle persone fino a 34 anni vivono ancora in famiglia (media europea 26,4%).

Dunque, lavoratori poveri, minorenni, migranti: queste le categorie più specifiche esposte alla nuova povertà.

Quali le cause?

Il volume così le schematizza:

  • – insufficiente domanda di lavoro
  • – bassi salari e abuso di contratti atipici e a termine, che generano il fenomeno dell’ “in-work poverty”
  • – forte divisione di genere nelle famiglie e inadeguatezza, per le donne, di politiche di conciliazione famiglia-lavoro.
  • – eccessiva familizzazione delle risorse (familismo forzato, in assenza di alternative))
  • – welfare frammentato e sempre più debole potere di contrattazione dei lavoratori

La crisi dovuta al Covid-19 ha fatto inoltre emergere il tema della “povertà educativa”, esasperata dalle dinamiche del lockdown e della didattica a distanza, fortemente discriminante a causa degli squilibri nell’accesso alla rete ed ai dispositivi.

In pratica, come già detto, la diffusa convinzione che la crescita dell’occupazione generi automaticamente una riduzione della povertà si sta rivelando un’illusione anche da noi: oggi si osserva drammaticamente una realtà di povertà nonostante il lavoro.

Infatti, i problemi del mondo del lavoro, in Italia più che altrove, sono:

a. flessibilizzazione dei contratti: dagli anni ’90, con clou dal 2014, sempre più diffusi sono i lavori a basso salario e intermittenti o nell’economia informale e atipica. Prima erano soprattutto le donne a trovarsi in questa condizione, ora anche gli uomini vi si trovano, per mancanza di alternative. Tra l’altro il Lockdown ha ridotto anche le possibilità di lavoro irregolare/informale che costituisce ripiego in assenza di altre opportunità.

b.grandi numeri di lavoro formalmente autonomo, soprattutto tra i giovani, ma senza tutele (universo delle Partite IVA).

c. aumento di famiglie dove nessuno lavora (quindi, con nessuna tutela della disoccupazione se gli eventuali periodi lavorativi non sono stati  mai “formalizzati”).

La presenza di minorenni in famiglie povere peggiora il quadro, causando la trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza e della povertà.

Nemmeno il PNRR prende veramente sul serio il tema della povertà, nonostante l’evidenza delle debolezze strutturali descritte; e intanto si rafforza sempre più l’idea che i migranti sarebbero un problema che sottrae risorse agli italiani; il tutto basato sulla falsa idea che l’Italia sia di per sé un paese ricco.

 “Che fare, dunque? Che fare?” si chiedeva Lev Tolstoj nel 1886, riflettendo sul triste spettacolo dei diseredati di cui aveva preso coscienza.

Buona cosa è stato l’assegno unico per le famiglie (istituito nel 2021, operativo da pochi mesi); necessaria sarebbe, poi, almeno un’organica riforma degli ammortizzatori sociali; da rivedere sono, certamente, le norme che regolano il mercato del lavoro.

Intanto, di fronte alla situazione descritta, il tanto vituperato (da parte di una certa parte politica e di una diffusa opinione pubblica) Reddito di Cittadinanza, introdotto in Italia nel 2019, sembrerebbe essere una delle strade da seguire.

Le critiche che riceve si basano sul presupposto che i beneficiari ne godrebbero per “non fare nulla” e “stare sul divano”, idea sostenuta dal preconcetto che i poveri siano sempre pigri e opportunisti, considerando peraltro la povertà come condizione squalificante, disdicevole e quindi da stigmatizzare o addirittura punire.

S. L. Gildes "Questuanti in un asilo per poveri in pieno inverno" 1874

S. L. Gildes “Questuanti in un asilo per poveri in pieno inverno” 1874

L’operazione oggi in voga di “moralizzare” la povertà ed i poveri, rappresenta una versione contemporanea dell’idea per cui la povertà è il risultato di una disgrazia personale o di un comportamento inadeguato, non di meccanismi economici e sociali. Secondo questa logica, paradossalmente, è bene esercitare un controllo sui poveri, affinché si “attivino”, anziché esercitarlo sui meccanismi politico-economici che producono povertà (viene in mente il mondo magistralmente rappresentato da Charles Dickens nei suoi romanzi: Poor law e workhouse rivisitate).

Si pensi peraltro che già nel secondo dopoguerra prevalse una visione della povertà fatalistica, con toni moralistici (DC), oppure carica di aspettativa ottimistica, per cui la povertà di massa sarebbe scomparsa con lo sviluppo economico trainato dall’industria (PCI). Ora sappiamo che non è andata esattamente così.

Lo studio riconosce invece che col RdC si è cominciato a correggere la posizione anomala dell’Italia nel contrasto alla povertà, in un quadro europeo da tempo orientato su strumenti di questo tipo. E’ senz’altro da perfezionare e potenziare, poiché si è rivelato insufficiente in pandemia, soprattutto a causa dei vincoli per l’accesso: ma, invece di allargarli, si è preferito affiancarvi, in maniera pasticciata, il Reddito di Emergenza (REM), perché i “poveri causa-Covid” vengono percepiti come sfortunati e non colpevoli, bisognosi verosimilmente per un breve tempo, e quindi meritevoli di un canale di sostegno privilegiato, a differenza dei poveri per altre cause, visti con insofferenza, se non con sospetto.

Lo studio rigoroso di Saraceno, Benassi e Morlicchio ci apre gli occhi su un quadro ben confortato da dati inoppugnabili e da un’ampia bibliografia: il passo successivo lo deve fare la politica, evidentemente, con scelte coraggiose basate sulla conoscenza della realtà, tenendo conto di pratiche virtuose, ove attuate, per soluzioni al passo coi tempi che riescano a mettere in discussione modelli economici evidentemente non orientati al bene di tutti i cittadini.

 

di Laura Giuffredi

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