Sherlock & Elementare (4) – Breve storia di logica e necessità

settembre 21, 2015 in Racconti e poesie da Claudio Ianni Lucio

Sherlock & Elementare 4Quando qualcuno cerca di raggiungere un obiettivo, sarà sempre ostacolato dall’involontario intervento di qualche altra presenza (animata o inanimata). Tuttavia, ci sono obiettivi che vengono raggiunti, in quanto la presenza che interviene cerca a sua volta di raggiungere un obiettivo ed è, naturalmente, soggetta a interferenze.” –  Legge di Sodd –

Sherlock Holmes, tra una gustosa boccata di pipa e l’altra, seguiva con lo sguardo Elementare Watson vagare nel cortile affaccendato un momento in questa cosa e un momento dopo in quell’altra, ognuna vuota, talune inopportune.

Volle provare quel che si prova nell’essere un Elementare Watson, così s’immedesimò nell’assistente.

Le cose iniziarono a vorticare, come se il mondo fosse una giostra tutt’intorno a lui a far da palo nel mezzo; le tende volevano essere ora aperte e ora serrate, senza alcuna specifica ragione.

Non c’erano più certezze, fatto salvo un’intermittente certezza di averne. A quest’ultima però non si faceva a tempo ad abituarsi che subito svaniva, aggravando inevitabilmente la condizione primaria.

La realtà fattuale che ora Holmes percepiva era del tutto simile a un album degli Slayer: non gli dava tregua. Non c’era scampo, non una pausa. Lunghe agonie e ostinati magoni formavano un esercito di formiche che marciavano sull’orizzonte, compatte, in file interminabili. Tutto gli sfuggiva vertiginosamente di mano, senza che ci fosse un rimedio. Non sapeva nemmeno più dove aveva infilato la busta dell’eroina.

Volle immediatamente tornare a provare ciò che si prova nell’essere uno Sherlock Holmes, quell’inviolabile sicurezza cosmica propria dell’essere padrone di sé, degli orizzonti disinfestati e del sapere dove hai lasciato la droga l’ultima volta.

La situazione si sistemò all’istante, tranne per i simboli.

I simboli erano cinque. Qualcuno li aveva dipinti sulla parete del corridoio della villa, occupandone ogni centimetro. I primi tre erano rossi, su sfondo nero; gli ultimi due erano neri, su sfondo rosso (presumendo, come fece Holmes, che fossero stati scritti da sinistra verso destra). I primi due, e così il quinto, sembravano tagli di un ubriaco Lucio Fontana; il terzo aveva tutta l’aria di rappresentare un modesto falò e il quarto era inequivocabilmente un rapace, presumibilmente un falco – tutt’al più un’aquila o un nibbio, o una poiana. Aveva però un qualcosa dell’albanella, in effetti, e dello sparviero, e dell’astore –. Superata una breve indecisione iniziale, li classificò come elementi dell’alfabeto egizio, scartando così l’ipotesi che fossero opera di qualche giovane marmotta in overdose da Ritalin.

Applicare le sue eccezionali facoltà su un graffito presumibilmente vandalico per chetare l’ansia socio-immobiliare di quei borghesi inconcludenti del Club del Sigaro lo intristiva. La storia del luogo gli era ostile; un connaturato aroma di mandorle e cacao, capace di resistere anni al fumo classico (i soci del Club direbbero banale) della sua pipa, appestava l’edificio meglio della carta da parati. Che poi visto aveva visto, scarsità d’indizi utili, meglio tornare all’esterno a far pascolare Elementare.

Avrebbe pagato di tasca propria per un caso come si deve, se solo non avesse dovuto accettarne uno noioso per rimediare il contante. Questo lo aveva accettato perché era indietro con l’affitto di qualche mese, e la casa gli era necessaria, sia come ripostiglio per la droga, sia come recapito per la corrispondenza, sia come gabbia saltuaria per Watson (il quale, pur non sapendolo, doveva alla proprietaria da 2 a 10 mesi d’affitto arretrato).

“Oh, Elementare! Hai trovato qualcosa?”, s’informò il supremo deduttore presso l’assistente ancora intento a vagare nel cortile.

Sherlock & Elementare 4

Illustrazione di Cristina Gaffurini

Watson allargò le braccia e scosse la testa in un muto “no, purtroppo”, sperando di non cogliere sul volto di Holmes le tracce della disapprovazione. Non ne trovò, soprattutto perché la disapprovazione non se n’era andata.

“Allora hai trovato una conferma”.

“Una conferma?”

“Sì. E ora ne ho trovata una io”.

“Non ti seguo”.

“Oggi pare abbondino”.

“Ottimo”.

“Non credo proprio”.

“Ma le conferme non sono positive?”

“Non certo tutte”.

“Io credevo di sì”.

“Credere non serve a niente”.

“Ma io credevo servisse”.

“Credevi male”.

“Questo non lo credevo”.

“Lo sapevo”.

“Davvero?”

“Certo. Io non spreco il mio tempo a credere, come fai tu, io so”.

“Ma anche io credevo di sapere…”

“No, tu credevi che credere di sapere fosse uguale a sapere e non sapevi, né credevi, che sapere di credere è preferibile a credere di sapere”.

“Dici che né credevo addirittura?”

“Macché!”

“La cosa non suona niente bene”.

“Suona che è una porcheria, e non usare frasi fatte, sai che mi mandano subito in astinenza”.

“Scusa… E… mh… cosa dovrei fare, se scoprissi che una cosa che sapevo di credere di sapere è invece qualcosa che credevo di sapere di sapere di credere di sapere?”

“Suppongo, mio ingenuo amico, che dovr…”

Sherlock Holmes venne suo malgrado interrotto dallo sgangherato avvicinarsi di un maggiolone Volkswagen bianco con due tizi a bordo che s’arrestò cigolante a una manciata di metri da Elementare, facendo slittare abbastanza ghiaia da indire in lui elezioni neurali estemporanee, vinte immediatamente da un forte senso d’inefficacia entropica per plebiscito neuronale.

“Attento Elementare! Potrebbero essere ostili!”, raccomandò Holmes all’assistente, aggiungendo poi un robusto “lascia parlare me” che veicolò buona parte del traffico sanguigno di Watson lontano dal cervello, verso zone più baricentriche.

Elementare, con la spontaneità tipica dell’abitudine, si fece da parte. Indietreggiò di qualche passo, fino a che il tallone gli si fermò contro un ingombrante vaso di pietra, privo di pianta e pieno di terra. Si bloccò lì, estasiato dallo sfrenato moltiplicarsi delle formiche sul paesaggio. Aveva la postura vile del gradasso appena disarmato e l’espressione statica dello smidollato in estasi; Holmes seppe subito che bisognava soccorrerlo.

Per primo scese il passeggero, un fantino egregiamente baffuto e con un mazzo di ricci infeltriti, circondato dalle emanazioni opache di un sigaro farlocco trattato rozzamente. “Capo ma questo posto non era diverso l’ultima volta? Lo ricordavo più fatiscente; la prima associazione mentale che m’era venuta era con Jack lo Squartatore, ora mi vengono in mente i funerali della Regina Madre, la bara aperta e le vene varicose della vecchia”, commentò sistemandosi gli occhiali sul naso mentre s’apriva la portiera lato guidatore, negando la minima attenzione a Holmes e Watson e all’importanza che i due hanno nell’economia della narrazione presente.

L’uomo al volante, magro e longilineo, non sembrava un fantino, un cacciatore o un dottore, né rassomigliava a un qualsiasi altro cittadino adeguatamente schematizzato in un’uniforme relativamente totalizzante; a Sherlock ed Elementare, del tutto privi di addestramento in fatto di hipster, venne comodo incorporarlo nella massa mucillaginosa degli accattoni perdigiorno. Nemmeno lui concesse molto peso a chi si trovava già sul posto, forse ancora convinto di essere il personaggio principale di una storia fatta apposta per lui, sorretto dalla visione di uno scopo definito che per essere compiuto necessitava di un percorso preciso lastricato di mattoni precisi che, anche se ancora sparpagliati in un ordine scarsamente utile, giudicava già a quel punto sufficienti. “Dev’essere successo qualcosa quando sono entrato in quella sorta di buco nero. Groucho, il mio quinto senso e mezzo mi dice che abbiamo viaggiato nel tempo, all’indietro…” sbuffata sconsolata, mani sui fianchi “sapevo di stargli alla larga, ma quando me lo sono trovato davanti ho dovuto attraversarlo. Ho dovuto per forza”.

“Questa tua incapacità di sfuggire ai buchi neri sta pericolosamente sconfinando Capo”, sghignazzò Groucho che infine s’era deciso a interagire con gli indigeni della trama: soffiava anelli di fumo verso le loro sagome e teneva chiuso un occhio per eliminare la percezione della profondità, così da ottenere un curioso effetto “foto da lapide”.

“A differenza della tua inutilità che è già debordata su tutto”, tuonò il protohipster (d’ora innanzi chiamato Dylan Dog, perché è meglio avere i nomi per le cose, invece di occupare spazio a fare giri concentrici di parole) al fantino puntandogli contro un dito ossuto da clarinettista.

Groucho si sarebbe messo a insistere sulla mancanza di un reale stipendio fisso, approfittandone per esaltare quanto il suo rendimento fosse del tutto in accordo col dettaglio in questione, se solo ne avesse avuto il tempo. Non gli serviva percepire la profondità per accorgersi che la figura di Sherlock Holmes, pronta per essere incorniciata in un nuovo anello di fumo, s’era fatta repentinamente più grande e minacciosa e non aveva bisogno di entrambi gli occhi aperti per constatare che sia le dimensioni sia la minacciosità andavano aumentando con l’accelerazione tipica degli accidenti inevitabili.

Il gancio destro di Sherlock, sospinto dall’attitudine per il pugilato, fece ingoiare a Groucho il sigaro la cui brace, frantumata in un numero imprecisato di schegge luminescenti, gli ustionò il labbro superiore e parte dei baffi. Il secondo colpo, dritto per dritto e sempre di destro, gli ruppe contemporaneamente naso e occhiali, donando così a Groucho una delle poche cose capaci di incrementare i suoi gradi d’inutilità: lo svenimento.

Dylan Dog fece per avventarsi su Sherlock scavalcando direttamente il cofano (e fu qui che la diluizione dei dintorni negli imenotteri diventò per Elementare di proporzioni omeopatiche*), ma fu afferrato per il collo da Sherlock praticamente in volo, ridisteso sul cofano e sollevato fino a poggiare col busto sul parabrezza. Da qui una scarica impietosa di cazzotti s’abbatté su di lui fino a fargli sfondare il vetro con la nuca, suono che Holmes considerò il gong di fine incontro.

A Watson rimase il compito di legarli l’uno all’altro, cosa che stava facendo con commovente abnegazione quando Sherlock gli comunicò “il caso è risolto, Elementare”.

“Sono loro i colpevoli? Sicuro?”

“Potrebbero”.

“Quindi credi lo siano, ma non sai se lo sono?”

“Circa”.

“E tutto il discorso di prima?”

“Lascia perdere”.

“Ma hai detto che credere non serve a niente”.

“A noi no, ma ci basta che qualcun altro creda di sapere qualcosa”.

“E noi a questo punto cosa crediamo? Cosa sappiamo?”

“Niente”.

“In che senso?”

“Nel senso che non ha importanza”.

*È utile ricordare in questa sede la proporzione di validità matematica “Pericolo : Elementare Watson = Solletico praticato da un monco : Sherlock Holmes”.

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