Il sapore di Omero: l’Iliade, Achille, Leopardi

giugno 24, 2025 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli

Iliade copertina grande

Davvero niente è più infelice dell’uomo

Tra tutto ciò che respira e si muove sopra la terra.

Il grande dio ha messo sui piatti della bilancia il destino degli eroi, poco prima era crollato il piatto su cui stava il destino di suo figlio Sarpedonte, ucciso da Patroclo. Ma l’infelicità umana lo commuove ben poco, perchè il dio ha sempre in cuore una trama nascosta, come quando la prediletta Teti gli abbraccia le ginocchia chiedendo armi nuove per il figlio: lui acconsente, ma sa bene che con esse, dopo un giorno di gloria, Achille morirà.

È un’osservazione, fra le moltissime, che troviamo nel saggio di Robin L. Fox, Omero e l’Iliade, Einaudi, trad. di Valentina Palombi, un’opera di 500 pagine + 100 di note, bibliografia, nomi citati. Fox affronta da tante prospettive il poema più antico della nostra civiltà, composto tra il 750-760 a. C. mentre la città fu distrutta nel XII secolo, corrispondente, è accertato, allo strato Troia VI.

Omero quindi è ben lontano dall’evento che canta.

Laurent Roland, Omero, 1812 - Parigi, Louvre

Laurent Roland, Omero, 1812 – Parigi, Louvre

Nell’Iliade Robin Fox, già docente a Oxford, entra con entusiasmo avvincente e contagioso, da innamorato che ha dedicato a quel poema la vita, e chiude l’ultima (per ora) soluzione della “questione omerica”. Omero fu un cantore vagante di festa in festa, raccolse e unì canti poetici esistenti prima di lui.

E questo non è una novità, nuova invece è la tesi che Omero fosse probabilmente analfabeta e che qualcuno abbia scritto il suo canto. Quando leggo l’Iliade sento, al di là del testo, un poeta che canta i versi iniziali accompagnandosi con la lira, poi continua componendo mentre recita, modulando il tono e il ritmo della voce per adattarli ai personaggi e alle situazioni e cercando di procedere alla stessa velocità dello scrittore o degli scrittori, uomini o donne, coraggiosamente impegnati a trascrivere le parole via via che le pronuncia.

Mi scuso se queste parole mi hanno fatto pensare a un boss che detta alla segretaria. Ma, scrive Fox, tutto si comprende meglio se il poema è dettato a voce. La lingua di Omero è un misto di eolico e ionico e nella fluidità degli esametri si sente la sua voce che cambia tono e ritmo, e si capisce che componesse recitando da certe similitudini imperfette o ripetute e dalla tecnica di anticipare qualcosa per svolgerla più avanti, senza mai dimenticarla, da grande poeta.

Le similitudini sono radicate nella realtà, coinvolgono insetti, animali, ulivi, uccelli che sono messaggeri tra cielo e terra, ma non semplici variazioni o digressioni. Il loro scopo è aiutare gli ascoltatori a visualizzare qualità astratte: per esempio l’effetto della luce sulle armi dell’esercito acheo è paragonato a quello di una foresta in fiamme; la quantità dei guerrieri troiani alle oche e ai cigni sui prati dell’Asia. Similitudini che volgono a oriente e a occidente perché la guerra è vista dalle due parti, e si rivolgono a una classe sociale diversa da quella di eroi o regine che in esse non sono mai menzionati.

Poiché i fatti si riferiscono a secoli precedenti, è evidente che ci siano degli anacronismi: ad esempio, si parla di armi di ferro che non esistevano al tempo della guerra, di incontri tra dei e uomini o di lotta tra gli dei, leggende del passato, e che tuttavia gli ascoltatori capivano.

Trovo ridondante il capitolo dei confronti con altre civiltà, mentre l’Iliade va collegata – scrive – al modo in cui i personaggi agivano e si disponevano sulla scena. Questo è un modo nuovo di leggere l’opera, come un film o un dramma in teatro. Unica nell’epica antica è ad esempio la descrizione dello scudo di Achille che comprende tutte le attività agricole e cittadine ed è la sola a mostrare scene in movimento. Inoltre l’Iliade, scrive Fox, è percorsa da una costante empatia, un pathos, una tensione tenuta alta con episodi di tono diverso e contrastante, il dolore (Andromaca, Priamo, Achille), la compassione, il richiamo al costume dell’ospitalità (si legga il brano tra Glauco e Diomede, sereno e ironico). Momenti di ironia che Fox trova anche in Anna Karenina, e considera Tolstoj (sono pienamente d’accordo) l’unico scrittore paragonabile in questo ad Omero.

Una voce arcaica viene dal fatto che Omero non descrive mai una battaglia, ma scontri di eroi che sono portati in battaglia da un carro e combattono a piedi. Il che ha fatto scrivere a Finley che il carro è come un taxi. Ma gli eroi non sono statuine, né lo sono gli dei, gli eroi sono internamente combattuti, incoerenti, imperfetti, cioè umani. Essi sanno, come Achille che piange sulla riva del mare invocando la madre Teti, che niente è più infelice dell’uomo/ Tra tutto ciò che respira e si muove sopra la terra.

Nikolay Ge, Achille lamenta la morte di Patroclo, Belarusian National Arts Museum

Nikolay Ge, Achille lamenta la morte di Patroclo, Belarusian National Arts Museum

Analogamente scrive Leopardi:

Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa

in un canto tra i più vicini all’Iliade, dove compaiono il carro di Giove, i flutti, il vento, le onde irate, la Parca che fila la vita.

Così Leopardi ha tradotto nei Canti: la solitudine e la grandezza affettiva contrapposte alla miseria dell’umanità cui è negata anche la visione dell’infinito. Ne ha scritto Gilberto Lonardi, professore all’università di Verona, in un libro del 2017, finito un po’ sottotraccia, L’Achille dei Canti. Leopardi, l’Infinito, il poema del ritorno a casa, ed. Le lettere. Lonardi si chiede: come immagina, sente, pensa Leopardi? La sua analisi, condotta oltre allo Zibaldone sugli autori a cui Leopardi si riferisce, mostra che al fondo del suo pensiero e scrittura sono i Greci, l’Iliade, Achille (non il viscido ingannatore Odisseo).

Giovanni Duprè, Saffo abbandonata, 1857/61 - Roma, Palazzo Belle Arti

Giovanni Duprè, Saffo abbandonata, 1857/61 – Roma, Palazzo Belle Arti

Cosa terribile non aver conosciuto Omero, scrive Leopardi. Sua è la solitudine di Achille, sia che non combatta, sia che invochi la madre guardando il mare come un animale ferito. Leopardi si identifica in lui per cuore, meraviglia, immaginazione. È Achille l’uomo naturale, l’impeto, il principio vitale, il desiderio selvaggio, ma anche ira, intolleranza, disprezzo. La sua precoce scelta di morire è tradotta in A Silvia che mostra con la mano “di lontano” la tomba.

Ancora: la siepe nega l’Infinito, è l’ostacolo, l’eterno che torna al presente. Lo sciogliersi nella natura è raggiunto con la morte nell’Ultimo canto di Saffo che dalla rupe di Leucade si getta in mare, non suicidio, ma dolcezza e malinconia.

Il verso di Leopardi è anche la spia dell’identificazione con Saffo: Come il vento odo stormir tra queste piante sembra la ricalca: Come il vento alle montagne fa impeto nelle querce.

Infine ecco il più forte contatto con il libro di Fox: Omero canta sulla lira al popolo, per Leopardi l’Iliade è quasi parlativa. Benchè a volte richiami Werther, Rousseau, Chateaubriand, il vino che Leopardi più gusta è il sapore di Omero.

di Mario Baldoli

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