L’immagine di Brescia tra Ottocento e Novecento (con uno sguardo al futuro)
aprile 21, 2025 in Architettura e urbanistica da Laura Giuffredi

Mappa di Brescia nel 1704 – In evidenza gli edifici conventuali
In tema di Piano di Governo del Territorio (PGT), rispetto al quale il lavoro dell’Amministrazione Comunale di Brescia sta per iniziare l’iter di una variante generale, può essere interessante ripercorrere le vicende urbanistiche in città dopo l’unità d’Italia.
Ci si può rendere facilmente conto di come una sostanzialmente immutata mentalità abbia determinato le scelte in materia per un secolo, in pratica fino agli inizi degli anni ‘60 del Novecento: una mentalità che ha portato non solo agli interventi più clamorosi di demolizione e sventramento, ma anche a tutta una serie di “restauri” che ci hanno consegnato parte della città quale oggi la vediamo.
Furono soprattutto problemi igienico sanitari che sostennero le ragioni delle più incisive modifiche del tessuto urbano di Brescia e che fomentarono animate discussioni intorno a problemi urbanistici fin dall’Ottocento, sull’onda di un fermento razionalizzante di ispirazione illuminista, che la dominazione austriaca fece proprio.

Area di piazza della Vittoria: primo progetto di demolizione e ricostruzione
Tale tendenza continuò anche immediatamente dopo l’unità d’Italia, rafforzandosi con sottolineature circa nuove esigenze di viabilità e risanamento edilizio entro le mura cittadine (anche a causa della coesistenza, problematica, di insediamenti produttivi e abitazioni). Le mura, appunto, già trasformate in “passeggio pubblico” alberato, erano da molti mal sopportate come una cintura troppo stretta per l’immagine di una grande città industriale in espansione quale Brescia prometteva di diventare.
A sostegno di questa operazione, la cultura positivista si alleò all’interesse privato dei ceti dominanti e ben pochi, accusati di nostalgie passatiste, difesero l’ipotesi della tutela.
Nel 1897 venne così approvato dal Ministero un “Piano di ampliamento” della città, della durata di 25 anni, che rimase unico strumento della politica urbanistica cittadina fino al Piano di Marcello Piacentini del 1929, a sua volta poi prorogato fino alla fine degli anni Cinquanta.
Ma questi risulteranno strumenti di fatto fragili, tanto che qualcuno definì Brescia “città priva di Piano” (A. Caccia, Costruzione, trasformazione ed ampliamento delle città, 1913): questo per la genericità e l’estrema duttilità di quello in vigore, ad assecondare nel tempo molteplici interessi.
Le demolizioni, in particolare, si rivolsero al “risanamento” di alcune zone ad alta densità abitativa e con case spesso fatiscenti, soprattutto nel quartiere del Carmine e lungo la via San Faustino.
La strategia appare chiara: il centro storico va recuperato alla fruizione dei ceti dominanti, liberato dai quartieri popolari (da trasferirsi in periferia) e rivalutato così nei suoi valori fondiari.
E sulle aree delle demolizioni si puntò a costruire nuovi quartieri “di rappresentanza” e comunque edilizia abitativa di pregio.

Il Monastero di Santa Caterina prima della demolizione
Si introdusse così, per la prima volta nella storia dei Piani Regolatori cittadini, la demolizione di interi isolati: solamente gli edifici riconosciuti effettivamente come “monumentali” furono tutelati e, anche nel demolire disinvoltamente chiese e monasteri (Santa Caterina, SS. Ippolito e Cassiano, San Cristoforo, per citarne solo alcuni), si salvarono qua e là solo alcuni frammenti di pitture murali ritenute meritevoli (oggi conservate nei nostri Civici Musei).
Del resto, dall’Unità d’Italia l’azione di tutela del patrimonio non si esprimeva ancora secondo una “politica dei beni culturali” quale oggi la intendiamo, ma secondo la logica del “capolavoro”.
Perciò il fine perseguito da molte Amministrazioni Comunali fu quello del restauro, e dell’isolamento dal contesto, dei monumenti antichi più prestigiosi e, contemporaneamente, della costruzione di edifici moderni, ai primi legati da una sorta di pari dignità formale.
Fu questo modo d’intendere che condizionò anche la realizzazione dei tracciati stradali e la configurazione delle piazze, concepite come scenari entro i quali gli edifici rappresentativi dovevano figurare con tutta la loro carica simbolica.
La realizzazione di piazza della Vittoria viene generalmente assunta come emblema della “vergogna urbanistica” di Brescia, associata al regime fascista: in realtà, essa non fece che continuare la descritta metodologia di interventi violenti nel cuore antico della città, durante il regime attuabili con maggiore larghezza di mezzi. Tra il desiderio ottocentesco di igiene, luce e rettifili, e la retorica del Ventennio esiste dunque un’ evidente continuità.
Intorno al progetto di Marcello Piacentini per la nuova piazza, il coro dei consensi fu praticamente unanime: solo il Sovrintendente ai Monumenti di Milano, arch. Modigliani, vi si oppose, bocciando il previsto abbattimento di quello che egli considerava un “raro esempio di casa a schiera di mercante medio-borghese”; ma senza esito. E “tenue” parve anche il sacrificio della romanica chiesa di Sant’Ambrogio (da cui vennero frettolosamente strappati alcuni affreschi), e di casa Averoldi, della quale una sola facciatina, affrescata da Lattanzio Gambara, rimase in piedi, inserita nel fianco occidentale del nuovo palazzo delle Poste, dove ancora si trova.
E negli anni ‘30 del Novecento le demolizioni interessarono anche vasti monasteri rinascimentali, come quello di San Cristoforo, su un’ampia area che vide poi la costruzione della Casa del Balilla (1936), e quello di Santa Caterina, che lasciò il posto al blocco razionalista della nuova Intendenza di Finanza (1937).
Ben presto poi l’attenzione di imprenditori, urbanisti e semplici cittadini si spostò su un altro complesso edilizio la cui mole si collocava in pieno centro cittadino, in via Moretto, e la cui “non-funzionalità” venne additata come scandalosa: l’Ospedale Civile, già convento, soppresso, di San Domenico.
Dal 1935 sulla stampa locale trovarono spazio una fitta polemica e un costante dibattito sulla necessità di erigere un nuovo ospedale fuori dal centro cittadino (quale venne effettivamente costruito nel secondo dopoguerra), ma, soprattutto, sulla destinazione da darsi alla vasta area che così si sarebbe liberata.
Interrotta dal secondo conflitto mondiale, la discussione fu ripresa negli anni Cinquanta, intrecciandosi con il dibattito sul nuovo Piano Regolatore, che prevedeva, in linea coi precedenti, nuovi sventramenti, tra cui appunto quello dell’area del vecchio ospedale.
C’era chi osservava che, in una città tanto povera di zone verdi come Brescia, quel lotto “avrebbe costituito un ottimo, singolare pretesto per apprestare un giardino”, ma in questo caso sarebbe toccato al Comune rilevare ampie superfici, pagabili come aree fabbricabili; altri, gli “interventisti”, sostenuti dall’Amministrazione Comunale, difendevano il “nuovo, che può anche essere bello”, specie se porta con sé igiene, luce, decoro: e questa fu la tesi che prevalse.
Vincitore del concorso per il progetto di lottizzazione (1955) risultò lo studio degli architetti Novella Tutino Sansoni, Vincenzo Montalto, Giuliano Rizzi, Alessandro Tutini, Luigi Airaldi, di Milano. Un progetto di cui si difese la modernità, e che si attuerà, a detta degli amministratori “senza provocare, una volta tanto, vittime illustri e demolizioni ingiustificate”.
In realtà, dell’enorme complesso monastico rinascimentale, che era ancora praticamente intatto, vennero salvati solo i portici a pianterreno dei chiostri, che sarebbero stati forzatamente incastonati in un nuovo insieme condominiale anonimo e stilisticamente del tutto estraneo.

Antico ospedale (ex-monastero di San Domenico), prima della demolizione
Sull’argomento, è interessante l’intervento sulla stampa dell’architetto Bruno Fedrigolli, che, in polemica con il sindaco Bruno Boni, nel 1958 scrive: “Bisogna osservare che nel periodo che va dal luglio 1954 ad oggi sono stati compiuti tutti i tentativi per stabilire il maggior numero di stati di fatto a favore del piano di sventramento, di fatto speculazione edilizia (…). Nelle discussioni avvenute sul Piano, da una parte si sono schierati gli ordini professionali degli architetti e degli ingegneri, la Sovrintendenza ai Monumenti, l’Associazione Amici dei Monumenti, la stampa nazionale di ogni colore. Dall’altra parte esclusivamente il gruppo dei progettisti e dei costruttori. Non c’è mai stata una voce diversa e tanto meno autorevole in urbanistica, fatta eccezione per quella del Sindaco [Bruno Boni, ndr], che abbia difeso il piano di sventramento (…). Se l’intera area fosse destinata a zona verde, Brescia avrebbe finalmente un suo centro e un suo respiro. Ma ci vorrebbe coraggio e lungimiranza per affrontare un simile programma. E nessun urbanista bresciano del nostro tempo desidera, evidentemente, passare ai posteri”. E il sindaco Boni, così si difendeva: “Se l’antico verrà rispettato e valorizzato, l’ inutilmente vecchio non potrà soffocare l’ansia di rinnovamento della città”. E così la clamorosa demolizione, e successiva edificazione sui preziosi lotti recuperati all’edilizia di lusso, furono compiute.
Ma dopo quei fatti, la coscienza della conservazione e della tutela del centro storico prese finalmente a prevalere sulla politica della “modernizzazione funzionale”.
Se infatti, di lì a breve (1961) vedrà la luce il PRG “ Morini”, con previsioni edilizie massicce, dimensionate sulla base di una del tutto irrealistica crescita della popolazione fino a mezzo milione di abitanti, è vero che, in seguito, la coscienza della conservazione e della tutela almeno del centro storico cominciò finalmente a farsi strada: così il compito del piano Regolatore nelle due varianti del 1973 e 1977 sarà quello di migliorare la qualità della città esistente.
Molto interessanti, con riguardo al centro storico, il Piano per l’Edilizia Economico Popolare (PEEP), nella zona del Carmine (varianti 1975 e 1978), a riqualificare tali aree con un intervento pubblico assai lungimirante: la collocazione nell’area di servizi culturali (Università), amministrativi, turistici, commerciali, risultò vincente e fece da traino all’iniziativa privata, collocando la città, in seguito a questi interventi nel decennio 1978-1988, al primo posto in Italia (rispetto a città di analoga dimensione) per numero di alloggi risanati dall’operatore pubblico.
Nel 1980 arriverà il PRG a cura di Leonardo Benevolo che, oltre ad insistere nella tutela del centro storico, realizzò il nuovo quartiere di San Polo, nonostante dal 1972 la popolazione in città registrasse una lenta decrescita, durata fino al 2000. Travagliate poi le vicende del successivo Piano Secchi, approvato, dopo un iter che lo snaturò, nel 2004 (ma questi sono altri capitoli della storia).
La nostra ricostruzione ha fatto emergere alcune “parole-chiave”:
risanamento, modernizzazione, espansione, valorizzazione, alle quali potremmo aggiungere, con uno sguardo al contemporaneo di moda, attrattività.
Tale lessico può in parte essere trasferito nel dibattito contemporaneo in tema di scelte urbanistiche: un lessico cui oggi obbligatoriamente dobbiamo aggiungere il termine “sostenibilità”. Concetto di riferimento, quest’ultimo, come emerso anche giorni fa nei dibattiti e negli incontri con esperti del settore durante la tre-giorni di “Futura-Expo” nella nostra città: una kermesse durante la quale molteplici voci si sono alternate davanti ad un pubblico di stakeholders, ma anche di semplici cittadini, certamente più informati di quelli di fine Ottocento-metà Novecento.
Più informati, ma forse non per questo più sicuri che le scelte che vengono quotidianamente operate su larga scala in tema di urbanistica e di spazi cittadini da vivere vadano sempre nella direzione del bene comune.
“Bene comune”: concetto tanto importante quanto sfuggente se non imbracciato come “stella polare” per ogni scelta che la Pubblica Amministrazione si trovi a portare avanti.
Tanto più oggi, in presenza di una complessità mai vista prima, di scenari inediti, da un lato promettenti e sfidanti, dall’altro preoccupanti e apparentemente ingovernabili con strumenti che non siano all’avanguardia ed entro i quali l’ente pubblico deve farsi attore protagonista.
Il “bene comune” avrà così nella città, come spazio e come comunità, il laboratorio di un vivere civile ove nuove strategie e visioni dovranno convergere, a valorizzare al meglio l’esistente, a rigenerare le vaste aree abbandonate, ad immaginare il nuovo, dati alla mano, con attenzione alle reali necessità delle persone.
Anche in questo ambito, il “pubblico” e la buona politica devono indicare la strada, con lungimiranza verso un futuro, segnato anche dai cambiamenti climatici, che si ha il dovere di saper interpretare e governare, senza pregiudizi e basandosi su conoscenze certe, attenzione alle buone pratiche, valorizzazione delle migliori competenze; il tutto fornendo anche ai cittadini strumenti di partecipazione attiva, un tempo assenti, ora accessibili attraverso gli organismi di cui l’Amministrazione Comunale a Brescia si è da tempo dotata.
di Laura Giuffredi