Sherlock & Elementare (2) – Breve storia di esorcismo ed entropia

giugno 25, 2015 in Racconti e poesie da Claudio Ianni Lucio

2Sherlock Holmes, tornato da Macondo dove molto, e per molto tempo, aveva pianto a causa dell’imperscrutabile nascondismo esistenziale di Waldo, se ne stava sbracato a poltrire aiutando la poltrona ad accumulare polvere.

Segretamente, e soprattutto fuori dai sospetti del Signor Holmes, la poltrona non collaborava affatto. Al contrario, stava segretamente gareggiando nell’accumulo di polvere. Cosa ancor più grave e grama, essa barava meschinamente, visto che conteggiava il detective stesso in qualità di “grosso granello di polvere”.

Fu così che Sherlock venne sconfitto, ancora una volta. Però non pianse, poiché non ne aveva idea e mai se ne accorse.La poltrona, invece, ancora se ne vanta, seppur in maniera sobria – tranne quando beve, o quando non beve, o quando né beve né non beve, o quando altri bevono, o non bevono, la roba da bere sua, o di altri, o proprio la loro, o tutte mescolate in un solo bicchiere, ma più grande (o non mescolate, sempre in bicchiere più grande, come l’altro, quello di prima, quello della roba di tutti mescolata dentro) -.
Mancava Elementare Watson, che però non mancava affatto. Cioè, mancava, però c’era. O meglio, non c’era, però c’era. Insomma, non che fosse proprio in quella stanza, però era in quella casa e, almeno virtualmente, avrebbe potuto entrare nella stanza da un momento all’altro. Ancora non si sa come né perché, o cosa stesse facendo mentre non era all’interno della stanza con Sherlock Holmes (non volle né mai vorrà confessarlo), arrivò.
 
S&E 2

Illustrazione di Cristina Gaffurini

Era un’espressione insolita quella di Elementare Watson, un po’ bovina, rammaricata di eventi lontani e microscopici, un mosaico di rughe inca su una faccia poco convincente da veterinario che non è un veterinario, bensì qualcosa d’altro di ben più terribile che però non sai cos’è. Holmes stesso non lo sapeva, solo che non voleva fare brutta figura di fronte a Watson. Così non la fece; ed Elementare Watson non s’accorse che c’era mancato poco ne facesse una. La giornata di Sherlock era salva, con la sua fama e forse la sua intera vita, ma non lo era quella di Elementare Watson.
Ed Elementare Watson disse “ho qualcosa”.
“Vediamola”, gli rispose Holmes con estremo scetticismo, tanto che Watson se ne stupì.
“Hai qualcosa anche tu?”, ipotizzò l’assistente.
“Non ti porto più al museo a vedere le xilografie di Batman e Robin”.
Elementare Watson, confermando l’andamento degli ultimi anni, non ci capì granché. “Guarda che ho davvero qualcosa”, specificò, sottolineando con grande enfasi la parola “che”.
“E fammela vedere!”, sbottò Sherlock accavallando le gambe, facendo così rammaricare internamente Watson, seppur esternamente si mostrasse contento del fatto che Holmes non era in vestaglia.
“Ma non è una cosa che si vede… è tipo aria viziata nella testa”.
“Saranno gli spifferi, come in una camera senza arredi e due finestre sempre aperte”.
“Quest’aria non circola granché. Non so”.
“Sarà proprio architettata male la costruzione, si vede”.
“Ma di cosa stai parlando?”, domandò, ancora con somma ammirazione, l’apostolo.
“Sarà la Colchide, allora”, sentenziò bruscamente il Sig. Holmes.
“Potrebbe essere la Colchide, sì”.
“Potrebbe o può”.
“Era una domanda?”
“No”.
“Buono a sapersi”.
“Potrebbe o può?”
“Domanda?”
“Sì”.
“Lo fai apposta?”
“No”.
“Buono a sapersi”.
“E la Colchide? Dovremmo fare qualcosa”.
“Dovremmo fare qualcosa”.
“Dovremmo proprio”.
“Pare di sì”.
“Hai visto? Sembra che uno debba fare una cosa e guarda caso poi salta fuori che deve farla sul serio. Ti pare roba da poco?”
“Non ci avevo mai pensato”, ammise Watson, nuovamente gonfio d’un’ammirazione incontenibile.
“Io ci avevo pensato che tu non ci avevi mai pensato”.
“Non avevo mai pensato nemmeno a questo”.
“Per questo fumo la pipa e mi faccio di coca ed eroina”.
“Esatto, per questo. Magari, se la fumassi anch’io, se mi facessi…”
“Macché, sei matto?
“Le sigarette?”
“E la Colchide?”
“Vero. La Colchide”.
“Ho scoperto tutto”.
“Tutto cosa?”
“Lo scopribile”.
“Scusa, ma come fai a sapere che non c’è altro da scoprire, se non l’hai ancora scoperto?”
“Che discorsi ti metti a fare?”
“Era scritto nei biglietti dei Baci Perugina. Sembrava una cosa intelligente”.
“Il cioccolatino l’hai mangiato?”
“No. Buttato via, perché la mia vita è sofferenza”.
“Bravo. Ma la Colchide?”
“Hai detto che avevi scoperto tutto”.
“Lo so, ho mentito”.
“Ma pensa un po’. A volte sembra che uno dica una cosa perché è vera e poi si scopre che non era vera, anche se sembrava proprio vera e l’aveva spacciata per tale”.
“Quante ne succedono, Elementare”.
“Troppe”.
Alla fine venne fuori che la Colchide era la mitologica destinazione degli argonauti. Subito Sherlock s’insospettì per il nome di Re Eete, sovrano di Aeaea; Elementare Watson si stupì invece del nome della città, cosa che Holmes gli rimproverò, spiegandogli che non è buona educazione stupirsi dei nomi delle città, esortando poi l’assistente a ripetere il nome del luogo, affinché s’abituasse a quel suono.
Dopo soli 28 insetti ingoiati (di cui 11 mosche, 14 moscerini e 3 falene) e un paio di slogature alla mandibola, Elementare avvertì distintamente, oltre a un vago senso di sazietà, d’essersi abituato alla pronuncia.
A Sherlock Holmes bastarono cinque secondi terrestri per rendersi conto che Eete non era altro che un banalissimo nome in codice. Da uomo che non sa e non può credere alle coincidenze (crede però ai pupazzoni con dentro gli attori che li muovono, anche se non riesce a credere agli attori, non solo a quelli nei pupazzoni, ma soprattutto a loro) collegò subito quell’improbabile nome di persona con quello apparentemente innocuo dell’acqua Lete.
Ecco dunque smascherata la beffa: quelli della Lete, partendo dalla conquista politica della Colchide, dovevano senz’altro puntare al monopolio del mercato recipientacqueo globale. Con buona probabilità, la faccenda vedeva invischiati anche dei fornitori di sodio.
Giunti nella Colchide a seguito di un disforico viaggio in deltaplano (Holmes guidava un alphaplano, cosa che Watson grandemente ammirò), si avvidero dall’alto che sugli autogrill, in ogni autogrill, in ognuno di quei dannatissimi casermoni vendi-merda, campeggiavano i cartelloni della Levissima.
E Sherlock Holmes pianse in volo. Molto, e per molti chilometri.
Condividi: Email this to someoneShare on FacebookTweet about this on TwitterShare on Google+Pin on Pinterest